LOS ANGELES – «Ma davvero ti chiami Rock?», domanda David Bowie a Mick Rock durante il loro primo incontro. Tutto nella vita del fotografo inglese – scomparso lo scorso 18 novembre – sembrava scritto nel destino, a partire dal cognome. Con autoironia, un acuto senso d’introspezione e un linguaggio tra lo sboccato e l’intellettuale, Mick Rock, qualche anno fa si era raccontato nel (bel) documentario Shot! The Psycho-Spiritual Mantra of Rock, diretto da Barnaby Clay (al momento non disponibile in streaming, purtroppo). Lo ha fatto senza censure e senza filtri, in modo simile al suo approccio alla fotografia: essenziale. Poche luci e molta attitudine. «Tutto è cominciato con Syd», dice a un certo punto, riferendosi all’amico Syd Barrett, fondatore dei Pink Floyd e suo compagno nel corso di letteratura a Cambridge.
La copertina dell’album solista, The Madcup Laugh, fu sua e divenne subito leggenda ma Mick Rock, dissacratorio, nel documentario rivela però che quelle tonalità oniriche delle immagini dipesero in realtà da un’esposizione sbagliata che poi dovette correggere in camera oscura. Così, minuto dopo minuto, scopriamo i retroscena di alcune delle immagini più celebri del rock, come la lugubre copertina dell’album Queen II, ripresa anche per il video di Bohemian Rhapsody, ispirata alla Marlene Dietrich di Shanghai Express. «Quello stronzo se ne stava immobile come un’iguana» dice poi Rock osservando la copertina dell’album Raw Power dell’amico Iggy Pop, immortalato durante un’esibizione dal vivo, in modo simile a Lou Reed in Transformer.
Se è stato soprannominato “l’uomo che ha scattato gli anni ’70”, Mick Rock, londinese adottato da New York, sembrava anche impersonare perfettamente l’edonismo di quegli anni, da lui così brillantemente raccontati. Gli eccessi che nel film rivela con gran candore sono poi risultati in un triplo attacco di cuore e un quadruplo bypass come mostra il film con un’unica, audace ricostruzione. Eppure Rock non parlava mai dell’amore per le droghe come un fatto nichilistico, ma piuttosto come se fossero state una porta alla creatività e alla sperimentazione.
“Whoopsie Daisy!” (in italiano suona tipo “perdindirindina!”) esclama a un certo punto riguardo l’epifania di combinare il kundalini yoga con l’uso di LSD. Se con le droghe ha dovuto darci un taglio, lo yoga restò una pratica quotidiana fino alla fine dei suoi giorni. «No, non sono un fottuto paparazzo», si giustifica in un passaggio del documentario prima di mostrare le foto del notorio party a base di sostanze illegali durante cui Mick Jagger, Keith Richards e Rod Stewart furono incastrati dalla polizia. «Ero parte di tutto e costavo poco», ammette lui, che per l’iconico scatto ai Queen avrebbe intascato appena 300 sterline.
Una star con la macchina fotografica in mano, tanto che nelle foto con Freddie Mercury sembra il quinto membro dei Queen. Ma trovarsi sempre nel posto giusto al momento giusto non fu solo questione di fortuna, come sottolinea Lou Reed in un passaggio che li ritrae durante un talk: Rock lo ringrazia con un bacio in bocca, una provocazione imparata ai tempi del glam. Le uniche voci esterne nel film sono proprio quelle di Lou Reed e David Bowie che arrivano per mezzo di vecchie registrazioni di conversazioni tra loro. «L’artista non esiste» sentenzia Bowie. «L’artista è frutto dell’immaginazione della gente. Lo è Bob Dylan, lo è Mick Jagger, lo è Marc Bolan, e lo sarò anch’io. Noi siamo nella zona grigia, siamo i veri falsi poeti, siamo le divinità» chiude poi. «Voi siete le immagini», ribatte Mick Rock. Visione imperdibile e no, non bisogna essere aspiranti fotografi per gustarsi quest’ora e quaranta minuti di pura ispirazione.
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Qui potete vedere il trailer del documentario:
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