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Le assaggiatrici | Silvio Soldini, la Tana del Lupo e quella riflessione sulla paura

Il nuovo film del regista? Un viaggio magistrale nella Germania nazista. Ecco perché vederlo

Le assaggiatrici
La tavolata con le donne scelte: una scena de Le assaggiatrici

ROMA – Una lente il cui specchio si distende sulla storia, sul retrogusto amaro della vicenda stessa che non mai passata, ma è sempre presente. Storie che sanno di attesa, paura, rimorsi e di quel destino che è sospeso, tra la vita e la morte, ad ogni boccone. Le Assaggiatrici, ultimo film di Silvio Soldini ora al cinema, è tratto dall’omonimo romanzo di Rosella Postorino (pubblicato nel 2018 da Feltrinelli) ed è un’opera che pur muovendosi in un contesto storico ben preciso e specifico – ovvero quello della Germania nazista – non si limita alla ricostruzione d’epoca, ma scava nelle dinamiche del potere, della sopravvivenza e della complicità umana, usando il passato come uno strumento per comprendere anche quello che viviamo in questo (difficile) presente.

Le assaggiatrici
Il viaggio: una scena de Le assaggiatrici

La vicenda è ispirata alla vera storia di Margot Wölk, una delle donne costrette a testare il cibo destinato ad Adolf Hitler nella Tana del Lupo per verificarne l’eventuale avvelenamento. Nel film, interamente girato in tedesco con i sottitoli – la protagonista Rosa Sauer (interpretata da una intensa Elisa Schlott, che era stata anche Elena di Baviera ne L’imperatrice) si ritrova catapultata in questo incubo quotidiano dopo essere fuggita dai bombardamenti di Berlino. Trasferitasi nella Prussia Orientale dai suoceri, viene reclutata dalle SS insieme ad altre giovani donne per assolvere un compito tanto paradossale quanto angosciante: mangiare per sopravvivere, e al tempo stesso rischiare la morte ogni giorno.

Le assaggiatrici
Il momento della verità: l’assaggio.

Soldini con Le Assaggiatrici per la prima volta si confronta con un period drama e – inevitabilmente – la regia cambia, come la vita in ogni essere umano, affronta il dramma con un approccio sobrio e intenso, fuori da ogni sensazionalismo melanconico e ricchi di primi piani, silenzi ed esitazioni. Complementari ad una fotografia magistrale, in grado di catturare la freddezza del contesto con colori smorzati e una composizione rigorosa. L’uso della lingua tedesca, scelta coraggiosa ma necessaria è il quid del racconto, per il racconto. In Le assaggiatrici non solo c’è una lucida messa in scena della paura dalle prime inquadrature, ma anche la complessità delle relazioni umane che si sviluppano, evolvono (e involvono) anche e soprattutto in condizioni estreme.

Le assaggiatrici
La scenografia del tavolo: fredda e glaciale in un altro momento de Le assaggiatrici

Rosa infatti è inizialmente un’estranea nel gruppo, nonostante spicchi il rapporto con Elfriede (Alma Hasun), che diventa un fragile punto di riferimento. E poi il confine sottile tra vittime e carnefici, tra obbedienza e resistenza, tra istinto di conservazione e senso di colpa. Il regime nazista, qui, non è raccontato attraverso le battaglie o i discorsi altisonanti della propaganda, ma attraverso il microcosmo soffocante della mensa dove ogni boccone potrebbe essere l’ultimo. Ma l’aspetto più riuscito del film – di cui è probabilmente molto consapevole lo stesso autore – è il modo che ne esce fuori di raccontare la paura: una trasformazione in una lente attraverso cui osservare il rapporto tra potere, obbedienza e identità.

  • VIDEO | Qui il trailer de Le Assaggiatrici
  • VIDEO | Qui la conversazione con Silvio Soldini:

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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