MILANO – Non è certamente il film che si aspettavano i fan dei Nirvana, però, rivista a quasi trent’anni dalla scomparsa di Kurt Cobain (era il 1994), Last Days di Gus Van Sant è una pellicola solo all’apparenza liberamente ispirata agli ultimi giorni maledetti del cantante, ma che in realtà gronda di umore e poetica “cobaniana” all’ennesima potenza. Apatia, alienazione, distanza emotiva, rabbia sottocutanea, confusione. Qui la rockstar non si chiama Kurt, ma si chiama Blake, è interpretata dal Michael Pitt di The Dreamers (perfetto, poi svanito nel nulla e di recente visto nella serie La storia di Lisey), ma tutto riporta a quel fragile ragazzo di ventisette anni, simbolo del movimento grunge e punto di riferimento per un’intera generazione, orfana di padri e di ideali.
Dal 5 aprile del 1994 il rock non è stato più percepito come prima, poco ma sicuro: il dolore ha superato l’icona, lo smarrimento ha superato il mito. Per tutti, è stato troppo. Da quel suicidio, è partito il processo di beatificazione del personaggio, giostrato dagli addetti ai lavori per fini innanzitutto commerciali, ma poi sono stati tanti a seguirlo purtroppo (da Layne Staley a Chris Cornell). Ma la discografia postuma non ha niente a che fare con il musicista Cobain, ancor meno con il ragazzo Kurt. Van Sant, cineasta che ha toccato con mano quel periodo storico e musicale, spoglia il ragazzo di tutte le sovrastrutture mitologiche che si sono ammassate dopo la morte e torna alla radice umana.
Il suo Kurt Cobain è un individuo solo, che parla a vuoto, che vaneggia e vaga senza meta per la sua abitazione sperduta ai margini di un bosco. Senza dubbio, devastato dagli effetti dell’eroina. Sembra però riflettere, attendere, recuperare un contatto profondo e primigenio con la natura intorno a sé. Qualche volta, solo qualche volta, suona. Ogni relazione con le persone che incontra è irrilevante: Blake aka Kurt ha già scelto: ci sta abbandonando.
Last Days è un’opera spiazzante, perché demitizza Cobain e lo ritrae nel percorso finale e vegetale che lo ha condotto verso l’uscita. Quello di Michael Pitt è un corpo nudo che si trascina e che preferisce sdraiarsi per terra. Spaesato, più svuotato che stanco. Il regista di Will Hunting rinuncia a qualsiasi riflessione elegiaca post-mortem: si limita a osservare il processo naturale che porta all’inevitabile fine. E – con assoluta naturalezza – riprende lo spirito che lievita verso il cielo. Senza commozione, senza struggimento.
Ma neppure senza cinismo: come in tutta la sua filmografia, legata dal filo rosso della giovinezza che si confronta con la morte, Van Sant riesce a far empatizzare lo spettatore con i suoi protagonisti. Vuole che si conoscano e si comprendano, rifiutando ogni giudizio, assolutorio o denigratorio, nei loro confronti. Il fattore umano, dicevamo: per questo Last Days è un grande film su Kurt Cobain.
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