ROMA – «La prima idea era dare priorità all’ascolto. Mettere le orecchie prima degli occhi». E ci è decisamente riuscito Jonathan Glazer che introduce così alla visione del suo film, La zona d’interesse, quarta pellicola diretta in oltre vent’anni, un capolavoro di visione e senso che dopo i premi a Cannes e ai BAFTA, gli ha fatto vincere l’Oscar 2024 alla Miglior sceneggiatura non originale e quello al Miglior sonoro. «Mentre lo giravo volevo fosse possibile prepararsi ad ogni immagine prima di vederla. Ho sempre pensato a La zona d’interesse come fosse due film distinti: quello che vedi e quello che ascolti. E mi auguro che l’esperienza del film sia l’intersezione tra ciò che vedi e ciò che ascolti». In realtà l’esperienza è molto di più: una discesa negli inferi filtrata dal punto di vista di una famiglia nazista che vive all’ombra di Auschwitz senza troppi problemi, un’opera altissima – segnata anche dalla fotografia del polacco Łukasz Żal, già su Ida – però molto accessibile che rimane addosso allo spettatore per molto tempo. Ecco come il regista inglese – che negli anni Novanta firmò alcuni dei video migliori del decennio per Radiohead (ricordate Karma Police?), UNKLE e Blur – ha spiegato alcuni passaggi della lavorazione della sua pellicola durante l’incontro con il pubblico a Roma.
IL LIBRO – «C’era qualcosa di pericoloso ed estremamente coraggioso nello scegliere il punto di vista dei carnefici. Io e il produttore del film, James Wilson, ne abbiamo parlato a lungo dopo aver letto il libro di Martin Amis. Era quella prospettiva ad affascinarmi. Ma, portando avanti la ricerca, documentandomi sui personaggi reali e studiandoli, mi sono reso conto che si trattava di persone comuni, vuote, noiose, familiari. Tutto questo mi ha aiutato a capire che il film avrebbe dovuto mettere lo spettatore nei panni di chi ha commesso quei crimini perché lo avrebbe portato a cogliere le somiglianze con i colpevoli, piuttosto che con le vittime. In molti film i nazisti, per come sono rappresentati sullo schermo, hanno un che di affascinante, che sia o meno intenzionale. La natura del cinema e le scelte che facciamo, a partire anche da come costruiamo una scena o un’inquadratura e dalle luci, ci spinge a prendere decisioni estetiche sull’argomento che trattiamo e in questo senso rischia anche di dare potere a quei ritratti. Io cercavo un modo per poter guardare quei personaggi al di fuori degli standard e dei cliché, cercavo qualcosa che avesse più senso per me. Volevo esprimere l’idea di guardare qualcosa da fuori, senza farmi vedere. Un po’ come fosse un Grande Fratello ambientato in una casa nazista…».
LE FOTOCAMERE TERMICHE – «Durante una delle prime visite alla città intorno al campo, Oswiecim, ho incontrato delle persone che durante la guerra avevano fatto parte dell’Armia Krajowa, la Resistenza Polacca. Ho incontrato una signora di novant’anni, Alexandra, che all’epoca aveva come compito quello di trovare cibo, nasconderlo e distribuirlo, con grande pericolo, dato che portava il cibo anche ai prigionieri, corrompendo le guardie. Ed è stata proprio quella specie di luce improvvisa, quell’onda di bontà che sembrava rappresentare che ho pensato di approfondire. Nella sceneggiatura la ragazza che vediamo portare cibo nel campo era un personaggio molto più ampio, ma quando ho montato il film mi sono reso conto che aveva una funzione molto semplice e quindi ho pensato che più che un personaggio dovesse essere una forza, un’energia. Quell’energia è quello che vedete nelle scene notturne de La zona d’interesse. In quelle scene c’è calore, una reazione al calore, non alla luce. La scelta è legata alla regola che ci eravamo dati: usare solo illuminazione naturale o ambientale. Ma come filmare una ragazza polacca di quattordici anni in un campo? Come si vede al buio? Come si vede qualcosa che gli occhi non riescono a vedere? Così abbiamo utilizzato una camera termica e l’effetto è quella specie di bianco e nero che si vede…».
IO & HANNAH ARENDT – «Gli scritti di Hannah Arendt e le sue osservazioni sono state un punto di riferimento durante le riprese. Ha detto che il male è la conseguenza della mancata capacità di pensare. Vero. Quello che vediamo nel film è che queste persone non pensano, perché per pensare devi avere un attimo di pausa, fermarti. Con Sandra Hüller, che interpreta Hedwig Höss, abbiamo deciso che lei in scena non avrebbe mai dovuto fermarsi. Il personaggio della moglie – se ci fate caso – non è mai fermo, non si prende mai il tempo per pensare. Quando guardi la sua performance, vedi che è sempre indaffarata, si muove costantemente, ansiosamente, ha in mente solo cose pratiche e quotidiane da sbrigare. “I fiori stanno bene”. “A che ora arrivano le amiche per il caffè?”. “Mamma, ecco la tua camera”. “Mamma, ecco il mio giardino”. È in continuo movimento, non si ferma, non si fa domande. Ed è il non pensare di cui parla Hannah Arendt. Il male fiorisce dal non pensare».
IO & MICA LEVI – «Ho lavorato con Mica Levi per la prima volta su Under the Skin, nel 2014. Non monto mai con la musica, perché ho bisogno di avere la sensazione di quello che sarà il film e so che se inserisco la musica troppo presto in montaggio potrebbe spingermi da qualche altra parte. Diciamo che voglio che il ritmo del film funzioni senza la musica. Eravamo arrivati alla fine del montaggio e dovevo cominciare ad ascoltare qualche compositore così il mio music supervisor mi ha fatto una selezione di compositori. Ancora prima di iniziare avevo la sensazione che la colonna sonora dovesse venire da un posto nuovo, da qualcuno che magari non avesse interesse a comporre per me. Così ho ascoltato un minuto di tutti i compositori fino a quando non ho trovato qualcosa mai sentito prima. Ho chiesto chi l’avesse composta. Mica Levi. Non la conoscevo. Due giorni dopo Mica è entrata in studio e da quel momento abbiamo cominciato a lavorare. Posso dire che quella conversazione con lei va ancora avanti, a dieci anni di distanza. Abbiamo lavorato anche ad altri progetti insieme e credo sia unica, perché ha un’intuizione emotiva speciale. Le conversazioni con lei sono forse tra le più belle della mia vita…».
IO & IL CINEMA – «Credo che il cinema sia molto efficace quando riesce ad entrare nella dimensione onirica, politica e psicologica della condizione umana, quindi i film che da sempre mi colpiscono sono quelli che trattano questi argomenti. La forma del cinema è ampia e cerco di usare tutti gli strumenti per riuscire a raccontare una storia. A volte lavoro di sintesi, eliminando cose. Devo interrogare ogni singolo aspetto di quello che sto facendo per trovare la forma che ritengo più giusta, trovare una logica nel modo di mettere insieme il film. Ci devo credere. Nel caso de La zona d’interesse non volevo realizzare un film che fosse un pezzo da museo a cui guardare con distanza, anche perché l’Olocausto è una cosa accaduta ottant’anni fa e questa distanza temporale spesso ci fa sentire a nostro agio. Non volevo questo. La mia idea alla base del film era ricordare a noi stessi che siamo in grado di commettere ancora gli stessi orrori e potenzialmente seguire, passo dopo passo, quella stessa abominevole strada…».
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