ROMA – La verità è che di film davvero belli sul gioco del calcio ce ne sono pochi. E i migliori cercano di evitare il più possibile il campo rettangolare, forse per l’impossibilità di rappresentare su grande schermo quei fatidici novanta minuti che tanto ci fanno arrabbiare o gioire. Ma, tra gli infiniti tentativi falliti, nel 2009 è uscito (in Italia arrivò solo direct-to-video, oggi lo trovate su AppleTv+ e Prime Video a noleggio) un gioiellino intitolato Il maledetto United. L’opera, scritta da Peter Morgan – ovvero la penna dietro Frost/Nixon, The Queen e Rush, giusto per citarne alcuni – e diretta da Tom Hooper (Oscar per Il discorso del re), è basata sull’omonimo romanzo di David Peace, che racconta i (tumultuosi) 44 giorni da allenatore, sulla panchina del trionfante Leeds (oggi nella Seconda Divisione Inglese, la nostra serie B), di un uomo leggendario: Brian Clough.
Come raccontato prima da Peace (trovate il libro edito da Il Saggiatore anche in Italia) e poi da Hooper nella pellicola, il viaggio di Brian – interpretato da un gigantesco Michael Sheen, perfetto nelle espressioni, nelle inflessioni, sembra quasi lui – è narrato in un arco temporale che va dal 1967 al 1974, in cui il manager nato nella piovosa Middlesbrough, si ritrova ad essere l’allenatore del Leeds United (odiatissimo dallo stesso Clough) dopo che l’allenatore Don Revie (Colm Meaney, altra faccia da cinema) viene ingaggiato dalla nazionale inglese.
Prima, però, Brian, affiancato dall’amico Peter Thomas Taylor (altro grandissimo: Timothy Spall) riesce a portare in Premier League il Derby County, facendogli vincere il titolo. Indovinate contro chi? Già, contro gli arroganti del Leeds di Revie. Ora, però, Clough, sulla panchina del Leeds, ci sta stretto, i giocatori lo detestano, lui vuole armonia di gioco e poca fisicità, in un periodo in cui sui campi inglesi vanno sangue e botte. E, a peggiorare le cose, Clough ora è solo, perché il socio Taylor a Leeds proprio non ci va.
Pur avendo il calcio come cornice, Il maledetto United si sofferma relativamente poco sulle scene di calcio, in un alternarsi di primi piani, dialoghi memorabili e inquadrature che sembrano quadri di cristallina bellezza. Così il film è, prima di tutto, una pellicola su un uomo in fiamme. Brucia Clough, in un ring of fire che non smette di ardere, alimentato dalla sua personalità, che lo porta al limite del genio sbruffone ma idealista, caparbio ma vendicativo, testardo ma empatico, facendo brillare la sua indolenza tattica, per premere invece sulla bellezza e l’armonia del gioco: «Hai lavorato molto prima di questa partita», dice Clough ad un giocatore, «ora vai e divertiti in campo».
Ma Clough – scomparso nel 2004 – è anche (e soprattutto) un uomo tormentato dal suo essere. Il fuoco che lo accompagna diventa per lui un’ossessione, una gabbia, gli fa perdere i riferimenti che, fino a quei maledetti 44 giorni, lo avevano reso ignifugo anche a se stesso. Ed è qui che il film di Hooper scinde l’uomo dal manager, quindi lo sport dalla parabola personale, rendendo Il maledetto United un’opera di profonda riflessione su cosa voglia dire fare un passo indietro, così da poter diventare (davvero) grandissimi. Anche con due Coppe dei Campioni sulla mensola più alta.
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