MILANO – Arrivò da noi come un fulmine a ciel sereno. Chissà in quanti saranno andati al cinema convinti di trovarsi di fronte a una commedia leggera, magari un po’ buffa e demenziale, attirati dai nomi di un Ben Stiller nel pieno della popolarità, Owen Wilson e Bill Murray. E invece – mentre a New York era uscito prima, il 14 dicembre 2001 – nel weekend di Pasqua del 2002, Wes Anderson si presentò al pubblico italiano con I Tenenbaum, una tragicommedia epocale, che sarà presa poi a breve giro come termine di paragone per tutto il cinema indie americano di lì a venire (e non solo, pensate a Non pensarci di Zanasi o Happy Family di Salvatores). Gli ingredienti? Una ricca famiglia disfunzionale, in cui i componenti non riescono mai ad affermarsi nei rispettivi ruoli e a raggiungere gli obiettivi; attori celebri nei panni di personaggi stilizzati, facilmente iconici attraverso vestiti e nevrosi.
Uno stile inedito, unico, immediatamente riconoscibile, quello di Anderson, che spiazza tutti coloro che credevano di vedere un’innocua pellicola di cassetta: per lo più inquadrature fisse, una maniacale cura dei dettagli, tanti colori, tanti oggetti, una geometria estetica impressionante. Un gusto del vintage funzionale e mai fine a se stesso, a partire da una colonna sonora nostalgica, ma perfettamente in linea con la narrazione e gli umori della pellicola (John Lennon, Rolling Stones, Bob Dylan, Nick Drake, Nico, Paul Simon). E soprattutto, quei due fattori umani che rendono davvero Wes Anderson un autore, e non soltanto un cosmetico: l’ironia e la malinconia.
Due sentimenti che permeano ogni singola cellula de I Tenenbaum (su Disney+) e invadono l’anima di ogni personaggio: più di tutti, quella romanticamente egoista di Royal Tenenbaum, interpretato da un monumentale Gene Hackman alla sua ultima grande prova poco prima del ritiro dalle scene, che finge di avere sei settimane di vita per riconquistare l’amore della moglie, Anjelica Huston (poi divenuta sua feticcio attoriale), e recuperare un rapporto con i figli. In modo particolare, raggiungono vette di struggente comicità le scorribande pomeridiane di Royal insieme ai nipoti, figli dell’analista finanziario Chaz (Ben Stiller, con tuta d’ordinanza), all’insegna di bravate infantili: attraversare il semaforo con il rosso, oppure lanciare gavettoni d’acqua ai taxi in corsa.
Ed è nell’eleganza formale di queste gag puerili che Wes Anderson sembra parlarci di qualcosa di grande, della transitorietà dell’esistenza, dell’inevitabilità del fallimento e nello stesso tempo della bellezza delle nostre fragilità. Come nell’amore irrealizzabile tra i fratelli Richie (Luke Wilson) e Margot (Gwyneth Paltrow, mai così brava), quest’ultima figlia adottata, raccontato con una lunare e dolente tenerezza, con These Days di Nico recuperata in sottofondo con i richiami dolenti a antieroi musicali come Nick Drake e Elliott Smith proprio nella scena del tentativo di suicidio.
Rivisto anche anni dopo (o soprattutto anni dopo), I Tenenbaum rimane così un impareggiabile manifesto della poetica wesandersoniana, ma diversamente dagli ultimi lavori, lo stile qui non si fa mai maniera, non è programmatico e non è ancora ostaggio del gioco citazionista che poi avrebbe preso la mano a Anderson rendendolo schiavo della sua regia. Insomma, un capolavoro sotto tutti gli aspetti, un film che ha influenzato cineasti di ogni parte del mondo, generando risultati raramente all’altezza dell’originale. «Ogni famiglia ha la sua pecora nera, in questa lo sono tutti». Fondamentale.
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