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Gli Ottant’anni di un Mito: Jane Fonda

Da Hollywood al Vietnam, tra l’Oscar e Netflix: il viaggio di una leggenda

Dalle pièce teatrali di Neil Simon a Netflix, dall’attivismo politico all’aerobica, tra il Vietnam e Hollywood: se c’è una figura capace di sintetizzare cinquant’anni di cultura pop è senza dubbio lei, acrobata in grado di rimanere in bilico per mezzo secolo tra blockbuster, autorialità e impegno, riuscendo (quasi) a ingannare il tempo e le sue insidie. Negli anni Sessanta Jane Fonda era la ragazza della porta accanto, nei Settanta la discussa attivista Hanoi Jane, negli Ottanta la regina dell’aerobica, nei Novanta era praticamente scomparsa, prima di ritornare rilevante negli ultimi anni – per uno strano arabesco del destino – grazie a due registi italiani.

 

Nata il 21 dicembre del 1937, figlia e sorella d’arte, sempre in fuga dai paragoni (ingombranti) con papà Henry e il fratello hippy Peter, dal debutto nei primi anni Sessanta all’ultima apparizione su Netflix con Le nostre anime di notte, la Fonda è sempre riuscita a fare di testa propria, concedendo poco allo show business, impermeabile a tendenze, anzi, spesso anticipando e lanciando mode e ossessioni di costume – vedi le tutine hot di Barbarella o l’estremo taglio di capelli in Una squillo per l’ispettore Klute – lavorando tanto con Preminger, Cukor e Zinnemann quanto con Godard, Vadim e con un altro irregolare come lei: Hal Ashby. Un tale corto circuito che a un certo punto della sua parabola, la si poteva trovare tanto in pellicole dure come Crepa padrone, tutto va bene a fianco di Yves Montand quanto in commedie bizzarre come Non rubare… se non è strettamente necessario con il più innocuo George Segal.

 

Due Oscar sul comodino (nel 1972 per Una squillo per l’ispettore Klute e nel 1979 per Tornando a casa), sette nomination (compresa quella per la figlia fragile di Sul lago dorato), l’ultima candidatura ai Golden Globe grazie a Paolo Sorrentino e a quei cinque folgoranti minuti di Youth (una lezione di cinema), la Fonda ha sempre saputo selezionare bene i film da girare, ma a fianco della sua ascesa non ha mai avuto paura di prendere posizione. Negli anni Settanta diventò politicamente indifendibile per l’opinione pubblica americana dopo la visita a Hanoi e il sostegno al Vietnam del Nord. Sarebbe diventata Hanoi Jane, boicottata e odiata, lei, liberale e femminista, accusata di simpatie comuniste prima della svolta estetica anni Ottanta con il boom dell’aerobica e le videocassette.

 

A Venezia qualche mese fa, poco prima di ritirare il Leone d’Oro alla carriera a fianco del compare Robert Redford, colpiva in conferenza stampa la sua determinazione, la luce che emanava dai suoi occhi, ancora avidi di vedere, conoscere, osservare, amare. «Gli anni passano», disse a un certo punto, «e io credo che quando ti ritrovi sul letto poco prima di morire non cominci a pensare ai premi che hai avuto o ai soldi che hai guadagnato, ma ai tuoi figli, alla tua famiglia, ai tuoi amici. Alla fine conta solo quello». E allora auguri Jane, altri ottanta di questi giorni.

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