ROMA – Il rumore del fiume, innanzitutto, il fiume Chattooga, in Georgia. E poi la libertà che si trasforma in incubo, la natura che si ritorce contro i cittadini spavaldi e sprovveduti venuti da Atlanta per conquistare il mondo. Dopo Il mucchio selvaggio e La ballata di Cable Hodge, per Sam Peckinpah erano due le strade: accettare la sfida di Giù la testa con cui avrebbe collaborato con Sergio Leone nelle vesti di produttore oppure inaugurare il western urbano che farà grande (e sperimentale) la New Hollywood con Cane di paglia. Scelse la seconda, ma per puro caso, perché in origine il progetto che avrebbe dovuto inaugurare il nuovo corso era proprio Un tranquillo weekend di paura. La pensava così anche James Dickey, autore del romanzo originale, Dove porta il fiume, pubblicato in Italia nel 1972, che per la regia, però, dovette accontentarsi di John Boorman.
Era un nome quotato però quello di Boorman. Veniva, infatti, dal premio della regia a Cannes 23 (Leone l’ultimo), strappò i diritti del romanzo, proponendo il progetto alla Warner Bros. Avviata la pre-produzione con Lynn Stalmaster come casting director, la Warner mise subito in chiaro come – per via della criticità del concept e dell’inerzia registica di Boorman – Un tranquillo weekend di paura avrebbe visto il buio della sala solo con almeno due volti noti al grande pubblico su quattro. Il progetto viene così proposto a divi come Henry Fonda, Steve McQueen, Warren Beatty, James Stewart, Charlton Heston. A un certo punto della pre-produzione vennero annunciati addirittura Jack Nicholson e Marlon Brando come interpreti. Il cachet di entrambi però superava il milione di euro: metà del budget previsto dalla Warner. In sostituzione Dickey propose Gene Hackman mentre Boorman suggerì Lee Marvin. La lettura dello script fece la differenza.
Ritenne che sia lui che Brando fossero troppo in là con gli anni per scene così impegnative. Marvin suggerì loro, però, di puntare su attori più giovani: Jon Voight e Burt Reynolds, entrambi conosciuti ed entrambi ad uno snodo fondamentale della loro carriera. Voight era reduce dall’ascesa straordinaria di Un uomo da marciapiede per poi vedere la propria stella spegnersi tra Comma 22 e Un ragazzo tutto americano prima che arrivasse Boorman, a cui poi diede il merito di avergli salvato la carriera («Cercando di uccidermi con stunt estremi»). Reynolds invece vide in Un tranquillo weekend di paura il primo turning point della sua vita dopo B-movies mediocri (4 bastardi per un posto all’inferno) e telefilm a ripetizione: «Fu il miglior film a cui abbia mai preso parte. Fu un film pericoloso da girare. Tutti dicevano che non si poteva fare e noi l’abbiamo fatto!».
Fu talmente magnetico nel ruolo che si dice fosse anche in odore di nomination come attore protagonista agli Oscar, ma il film ricevette solo tre candidature (film, regia e montaggio). L’apice del suo percorso artistico secondo Quentin Tarantino e le parole contenute nel suo (bellissimo!) saggio di critica Cinema Speculation. La celeberrima foto sul paginone centrale di Cosmopolitan dell’aprile 1972 fu accolta con freddezza nell’ambiente cinematografico come sintomo di poca serietà. Lui stesso comprese il passo falso, ma dal canto suo non fu mai un campione di lungimiranza, e la storia di Boogie Nights di Paul Thomas Anderson ce lo ricorda. Ma torniamo a noi: il quartetto di interpreti di Un tranquillo weekend di paura fu completato dagli esordienti Ronny Cox – nell’unico ruolo positivo in oltre cinquant’anni di carriera – e Ned Beatty che sarà poi suo malgrado protagonista della scena più iconica della pellicola.
Parliamo della feroce sequenza di stupro (Squeal like a Pig) di pura prevaricazione e sottomissione che accompagnò poi l’attore per oltre quindici anni di carriera. Sull’evento un paio d’anni dopo ci tornò anche lo stesso Reynolds raccontando un aneddoto: «Nella sua genialità John ha rassicurato Ned, inserendo diverse telecamere aggiuntive, sapendo che non ci sarebbe mai stata una seconda ripresa. Ned avrebbe girato quella scena un’unica volta». E sarebbe bastata. I veri problemi, però, sorsero proprio al momento di girare il critico momento di Un tranquillo weekend di paura: «Per la prima e unica volta in carriera ho visto operatori girare la testa dall’altra parte. Alla fine non ce la facevo, sono corso sulla scena tuffandomi su McKinney. Ned piangeva di rabbia e paura, trovò un grosso bastone e iniziò a picchiarlo in testa: una mezza dozzina di ragazzi della troupe lo hanno atterrato e poi trascinato via».
Una vicenda molto lunga che si concluse addirittura molti anni dopo, il 16 maggio 1989, quando Ned Beatty scelse di affidare alle colonne del New York Times uno sfogo di pura autoaffermazione (Suppose Men Feared Rape) con cui chiudere definitivamente il discorso e chiedere al pubblico di andare oltre quell’iconica scena: «Quante volte mi è stato gridato o sussurrato da allora? Suppongo che dovrei abbassare la testa e sembrare imbarazzato. La verità è che sono solo orgoglioso di aver fatto parte di Un tranquillo weekend di paura, un film reso da John Boorman un classico del cinema». Quel ruolo sarà un inizio sfolgorante per lui, una carriera che lo vedrà poi volto eccellente della New Hollywood (e non solo) tra Nashville e Quinto potere. Per comprendere bene il ruolo avuto da Un tranquillo weekend di paura nella storia del cinema, però, bisogna prima partire dal titolo originale.
Quel Deliverance poi abbandonato nella traduzione italiana di cui l’opera di Boorman a dire il vero non esplicita mai il significato. Non nell’opera originaria di Dickey però: «Il cercare tra i boschi la liberazione/deliverance, dallo stress della vita moderna». Connotazione che Un tranquillo weekend di paura fa sua a partire dall’apertura di racconto e da quell’incisivo dialogo off-screen reso da Boorman in voice-over che contribuisce a creare la base drammaturgica, approfondire il contesto scenico, e al contempo, settare il sottotesto del racconto: l’avvento della civilizzazione industrializzata, l’uomo contro la natura, o per usare le parole di Lewis, ovvero il personaggio di Reynolds: «Ci fanno una bella diga e il fiume va a farsi fot*ere». Intenti filmici immediati e netti di una narrazione che è autentica invasione dei civili di un mondo autoctono e inviolato tra la Georgia e il Sud Carolina: «Qui finisce la civiltà, siamo ai confini dell’ignoto».
Una preziosa chiave di lettura di Un tranquillo weekend di paura venne poi offerta da Voight: «Quel film venne girato durante e dopo il Vietnam. Era un attacco alla virilità e questo, in qualche modo, ne faceva parte: aveva profondità in quel tempo». Un’allegoria della disfatta vietnamita dalle ombre anti-Imperialiste e/o di proto-restaurazione della dicotomia western tra cowboy e indiani. Qui l’umano incontra il disumano mescolando, tra le rive di un fiume violento e macchiato di sangue, interrogativi morali e legali sulla valenza della morte e le ragioni dell’atto dell’omicidio che il dispiego dell’intreccio muta gradualmente i contorni da efferato delitto ad azione necessaria alla sopravvivenza del singolo. O per dirla ancora attraverso le parole di Voight: «Che cos’è l’eroismo? Come affronti il male?». Il violento evento al centro del racconto finisce così con il mutare per sempre l’inerzia dei protagonisti, forzandoli verso un’evoluzione caratteriale selvaggia e dalle regole proprie.
Lungo il suo cinquantennale retaggio (il film fu presentato a New York il 30 luglio 1972) l’opera piccola nei mezzi ma grande negli intenti di Boorman ha saputo ritagliarsi una buona fetta di immaginario grazie alla caustica impronta popolata di vivido realismo. Sul set, la Warner ridusse al minimo sindacale i costi assicurativi della produzione: tutti gli stunt che vediamo in Un tranquillo weekend di paura (su Prime Video e Apple TV+) furono realizzati dagli stessi interpreti. Come spiegò poi Boorman: «Non avevo controfigure né stuntman. Non mi piace l’idea dello stuntman perché se una scena è abbastanza pericolosa da aver bisogno di uno stuntman allora non andrebbe fatta». Questo chiaramente incise, e non poco, sui tempi di lavorazione, come l’infortunio occorso a Reynolds al coccige dopo aver disceso la cascata in canoa, mentre Beatty rischiò d’annegare e Voight scalò da solo la montagna nella celebre sequenza.
I veri problemi però Boorman li ebbe con Dickey. Che qualcosa non quadrasse lo capì immediatamente. Poco prima di iniziare la lavorazione, infatti, l’autore svelò a Boorman un segreto: «Ti dirò una cosa che non ho mai detto ad anima viva. Tutto in quel libro è successo proprio a me». Una rivelazione che lo scrittore dirà praticamente ad ogni membro della troupe. Al primo giorno di riprese, saliti assieme su una canoa, Dickey la fece capovolgere: «Lì mi sono reso conto che non gli era successo nulla di quanto raccontato nel libro». Discussero costantemente al punto che lo stesso regista arrivò a definire la lavorazione di Un tranquillo weekend di paura come: «Fare quindici round con un peso massimo. Dickey è come uno che dopo avergli fatto bere un paio di Martini vorresti solo infilargli una granata in gola». E no, non era una semplice battuta: Dickey beveva e parecchio!
Perennemente ubriaco chiamava continuamente gli attori con i nomi dei personaggi. Una situazione insostenibile che raggiunse l’apice durante una delle sequenza in canoa. La leggenda vuole che dopo un’aspra discussione a seguito di una riscrittura dello script da parte di Boorman, finirono con il fare a pugni e il regista si ruppe il naso. La verità pare più normale: a Dickey venne chiesto di non presenziare più sul set. Insistendo nel salutare gli attori prima di andarsene, disse loro: «Sembra che la mia presenza sarà più efficace per la sua assenza». Frase spiazzante a cui Reynolds rispose: «Un momento, significa che va o che resta?!?». Alla fine si riconciliarono, divennero perfino buoni amici e Boorman gli chiese anche di ritornare per il cameo come sceriffo proprio nella sequenza finale del film.
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