NEW YORK – L’undicesima edizione del BAMcinemaFest, che si appena conclusa alla Brooklyn Academy of Music a New York, ha messo in mostra come sempre alcuni dei lavori più innovativi e provocatori del cinema indipendente americano. Il festival quest’anno ha posto l’accento sulla rappresentazione delle comunità e delle loro esperienze, in particolare delle persone di colore, che continuano a essere raffigurate inadeguatamente sullo schermo. La rassegna, dunque, continua a perseguire la missione di dar voce a quegli artisti troppo spesso tralasciati sugli schermi, sfidando i canoni cinematografici tradizionali. Basta parlare dei tre film che hanno avuto più impatto sul pubblico, per notare questa sorta di filo rosso, all’insegna di una produzione cinematografica intimamente personale.

Partiamo da De Lo Mio, dramma familiare di Diana Peralta, che è stato presentato in prima mondiale durante la serata finale del festival. La storia è quella di Carolina (Darlene Demorizi) e Rita (Sasha Merci), due sorelle domenicane allegre e molto unite, cresciute nella Grande Mela. Esse devono che ritornare nella loro casa natia per sistemare alcuni dettagli riguardanti l’eredità del padre scomparso. Incontrano così il loro fratellastro Dante (Hector Anibal) che da sempre si è sentito abbandonato dall’uomo, fuggito negli Stati Uniti per far fortuna e mai ritornato nella Repubblica Dominicana. Peralta porta un lirismo delicato e non forzato al suo materiale (chiaramente personale), adattato in maniera efficace anche alla bellezza del paesaggio naturale che circonda i personaggi. Il film riesce a trasmettere appieno il peso di una storia familiare complessa e tutte le piccole gioie e conflitti che ne derivano.

Il secondo lungometraggio di Rashaad Ernesto Green, Premature, un’estensione di un precedente cortometraggio dallo stesso titolo, è più ampiamente sviluppato di De Lo Mio, ma come quest’ultimo anche Premature trova il suo punto di forza in un linguaggio non narrativo. Ambientato ad Harlem, racconta la storia di Ayanna (Zora Howard, anche co-sceneggiatrice), un’aspirante poetessa di 17 anni che sta per andare al college, e del suo compagno leggermente più grande (20 anni) Isaiah (Joshua Boone), un compositore e produttore musicale. Girato in 16 mm, il film segue le vicissitudini della loro relazione, dal flirt iniziale ai conflitti e alle rivelazioni che minacciano di rovinare il rapporto in modo permanente, in virtù della loro differenza d’età. La poesia visiva e verbale di Premature inciampa solo quando si allontana dall’osservazione dei personaggi per finire in una trama più convenzionale. Eppure, è un’opera imponente, arricchita da un’avvincente interpretazione della Howard. Abbiamo trovato (forse) un nuovo Se La Strada Potesse Parlare.

Nel documentario Vision Portraits, infine, Rodney Evans osserva gli artisti al lavoro, raccontando il viaggio emotivo e fisico a cui si va incontro prima di confrontarsi con l’incubo di un regista: perdere la vista. Per gran parte della sua vita, Evans ha sofferto di una rara malattia genetica che ha causato il deterioramento della retina, lasciandolo senza vista periferica, con una visione notturna molto ridotta. Il progetto nasce quindi come un modo per affrontare la sua disabilità, condivisa con altri tre artisti: il fotografo John Dugdale, la ballerina Kayla Hamilton e lo scrittore e insegnante Ryan Knighton.

Attraverso queste interviste, che si alternano a immagini astratte e multicolori, Evans racconta che la visione consiste in qualcosa di più della semplice vista fisica. Essa è fatta di immaginazione e di rottura dei confini creativi. Evans mostra vividamente le sue sensazioni di marginalizzazione come artista nero, gay e disabile in un film evocativo, riccamente strutturato e profondamente personale. Un inno a quegli artisti che si rifiutano l’idea che la disabilità diventi un impedimento a realizzare pienamente i propri obiettivi creativi.
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