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I tormenti di American Skin, tra Rodney King, George Floyd e Amadou Diallo

A cinque anni dall’esordio, Nate Parker dirige una storia di ingiustizia. Che rimanda alla cronaca attuale

American Skin
American Skin

ROMA – Quesito fondamentale: quanto è importante riuscire a scindere l’artista dalla propria opera? Risposta terribilmente difficile da dare, perché è chiaro che l’opinione personale – giustamente – pervade l’oggettività con cui si dovrebbe vedere un film, leggere un libro, ammirare un quadro. Allora, diventa complicato raccontare American Skin, opera seconda di Nate Parker, arrivata a cinque anni dal tripudio di The Birth of a Nation, in cui Parker dimostrò una certa bravura, oltre ad una propensione alle immagini iper-violente, contrastando la brutalità storica in nome di una popolo che cerca ancora uguaglianza, libertà e giustizia.

Ancora Parker in un’altra scena.

Fu un film necessariamente crudo, con le recensioni che, puntualmente, si aprivano citando un fatto di cronaca di cui lo stesso Nate Parker fu protagonista nel 1999 (basta cercare in rete per capirne di più), che fecero allontanare il suo film d’esordio da una possibile corsa agli Oscar. Ma, come detto, se bisogna dividere l’autore dall’arte, gli ottantanove minuti di American Skin (verbosi, politici, sincopati), presentati alla Mostra di Venezia 2019 e ora disponibili su Sky, vanno analizzati per le sensazioni che trasmettono. Così come The Birth of a Nation, anche American Skin – accompagnato dall’endorsement di Spike Lee, che lo ha definito «un tour de force coraggioso» – è carico di rabbia e di ansia.

Una scena del film

Parker, torna a farsi narratore di una storia di ingiustizia, in cui oltre a dirigere e sceneggiare, interpreta Lincoln Johnson, un veterano dell’Iraq che lavora come bidello in una scuola media di Los Angeles. Il figlio, fermato per un controllo della polizia, viene ucciso da un agente, poi dichiarato innocente senza essere nemmeno processato. Ed è qui che Nate Parker alias Lincoln Johnson imbraccia le armi, prendendo in ostaggio l’intera stazione di polizia, allestendo un processo contro l’agente incriminato, dove la giuria è composta da detenuti e gente comune.

Nate Parker è Lincoln Johnson

Il suo Lincoln si sostituisce allo Stato, dichiarandosi colpevole e martire, ma intenzionato ad ottenere giustizia e ascolto, mentre la camera a mano trema sugli occhi dei personaggi, come in un reportage di una guerra combattuta qualche isolato più avanti. Perché, dalla nascita degli Stati Uniti, il confine tra amore e odio continua ad essere macchiato di sangue innocente. Eppure, nel finale di American Skin – che tra i molti riferimenti di cronaca ovviamente rimanda a Amadou Diallo, ucciso dalla polizia nel 1999, e all’omonima canzone di Springsteen – Parker fa idealmente un passo indietro, pone delle domande scomode, confondendo il concetto di giusto e sbagliato. E, soprattutto, impartendo una lezione ideologica ancor prima che pratica e visiva. Finendo, in qualche modo, per espiare colpa, redenzione e vendetta.

Qui il trailer italiano del film:

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