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Bob Dylan 80 | Tra Sam Peckinpah, Scorsese e un enigmatico rapporto con il cinema

In occasione degli ottant’anni di una leggenda, riscopriamo le volte di Dylan al cinema

Bob Dylan
Bob Dylan in una scena del controverso Masked & Anonymus.

ROMA – Canzoni e brandelli di cinema, musica e immagini, da sempre una lunga lista, Forrest Gump, Watchmen, Good Morning Vietnam, Il Grande Lebowski, St Vincent, American Graffiti, perché sono infiniti i film dove si ascolta un brano di Bob Dylan. In fondo, il suo rapporto con il cinema è sempre stato marmoreo, anche se controverso. E non ci riferiamo solo all’Oscar vinto nel 2001 per Things Have Changed, contenuta in Wonder Boys di Curtis Hanson (statuetta non direttamente ritirata, partecipando alla cerimonia solo via satellite, nemmeno a dirlo), ma ad altro, perché la poetica di Dylan ha da sempre influenzato registi e autori, intere frasi diventate sequenze e omaggi.

E, a tal proposito, ecco un aneddoto piuttosto famoso: nel 1972, Sam Peckinpah sta girando Pat Garrett & Billy Kid. Per il film, lo sceneggiatore Rudy Wurlitzer vorrebbe ritagliare una parte a Dylan, rimasto colpito dal copione. Peccato che Peckinpah non conosca Dylan (incredibile, ma vero!). Glielo presenterà James Coburn, organizzando un incontro nel ranch del regista. Lì, Dylan suona un paio di brani, mandando in estasi Peckinpah: ottenne una piccola parte ma, soprattutto, diventa l’unico autore dell’intera colonna sonora che avrebbe poi contenuto una delle sue tracce leggendarie: Knockin’ on Heaven’s Door.

Ma, tra comparse e colonne sonore, non mancano strane e affascinanti operazioni come Renaldo and Clara, docufilm girato dallo stesso Dylan, che documenta, tra poesia e letteratura, lo storico Rolling Thunder Revue, la tournée svoltasi tra il 1975 e il 1976. Quel tour, poi, viene rivisto nel 2019 da Martin Scorsese, che dopo gli straordinari The Last Waltz del 1978 e No Direction Home del 2005 (il primo è un film concerto, il secondo un documentario che spiega il prorompente impatto del poeta nella cultura del Novecento), enfatizza l’enigma dylaniano in Rolling Thunder Revue: A Bob Dylan Story by Martin Scorsese targato Netflix.

A proposito di enigmi – quanti pseudonimi ha utilizzato Dylan? Elston Gunn, Lucky Wilbury, Robert Mikwood Thomas, Jack Frost – va ricordata la sceneggiatura di Masked & Anonymous, firmata sotto il nome di Sergei Petrov. Nel film è anche attore protagonista, affiancato da un super cast: Jeff Bridges, Penelope Cruz, Luke Wilson, John Goodman. A dirigere la pellicola, uscita nel 2003, Larry Charles. Memorabile, la comparsata di Dylan al Sundance, con un’assurda parrucca bionda. La pellicola dai toni post-apocalittici, però, fu stroncata sia dalla critica che dal pubblico, ma per i fan ha più di un momento assolutamente godibile.

Impossibile dimenticare Cameron Crowe e la scena di Vanilla Sky con Tom Cruise costruita su una copertina di Dylan, ma un capitolo a parte lo merita I’m Not There ovvero Io non sono qui (lo ritrovate in streaming qui). Se Scorsese è stato colui che più di tutti è riuscito a catturare la verità dietro la maschera, Todd Haynes, prendendo in prestito il titolo di un brano incompiuto del 1967, rimarca la poetica menzogna dell’artista confrontandosi con le sfumature di Dylan, impersonato rispettivamente da Cate Blanchett, Christian Bale, Richard Gere, Marcus Carl Franklin, Heath Ledger e Ben Whishaw. Il risultato? Pazzesco, un capolavoro assoluto, un’opera che – in perfetto stile Dylan – rifiuta la narrazione classica (niente ordine cronologico, né una messa in scena organica e costante) per essere il tributo totale ai versi del mito.

E, se i suoi album sono pregni di immagini, c’è molto cinema anche nel suo ultimo lavoro dell’anno scorso, Rough And Rowdy Ways. Una chitarra appena pizzicata appoggiata sotto un filo di voce, tra anima e parole, venute fuori come un lungo flusso di coscienza. Come fosse l’Ulisse di James Joyce o I Sotterranei di Jack Kerouac. Sulla porta dei suoi (primi) ottant’anni, Bob Dylan è tornato con un album per raccontare dell’America e del tempo che passa, di Martin Luther King e delle decisioni irrevocabili. Avvolgendo le canzoni da richiami visivi e cinematografici (cita, addirittura, Indiana Jones, Tony Montana e Don Vito Corleone!). Ma, soprattutto, scende negli inferi, sulle sponde dell’Acheronte, salutando con la mano quel traghettatore oscuro: infatti, in Rough And Rowdy Ways, il più grande cantautore vivente, affronta la morte in tutte le sue declinazioni.

Partendo (anzi, finendo), con una delle morti più influenti del Novecento, quella di  Kennedy. Dylan, nei 17 minuti di Murder Most Foul, l’ultima traccia dell’album, racconta, proprio come fosse cinema, di quel pomeriggio a Dallas, filtrato però attraverso una profonda contemplazione del presente, facendosi ancora una volta cantastorie moderno e anticipatore, come un profeta di strada e di musica. E se Murder Most Foul chiude un album formidabile, i precedenti nove brani sono illuminanti: Dylan, come detto, si avvicina alla morte, osservandola da vicino, scrutandola e, alla fine, beffandola. Perché, come un riff o un fotogramma, è l’attimo che conta. Ciò che viene dopo è un magnifico mistero. Auguri Bob.

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