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Quella volta che Alessandro D’Alatri ci raccontò Americano Rosso e la sua idea di cinema

Il set, Burt Young, ma anche Kubrick e Pasolini: un ricordo del regista appena scomparso

alessandro d'alatri
Alessandro D'Alatri ieri e oggi in due momenti sul set. Il regista aveva 68 anni.

MILANO – Qualche anno fa lo chiamammo per celebrare il suo primo film, Americano Rosso, raccontandogli quanto lo avevamo amato. Alessandro D’Alatri, appena scomparso a soli 68 anni, era arrivato a quel debutto firmando più di cento spot. Poi, ecco il 19 aprile 1991, il giorno d’uscita al cinema del film, che con il David di Donatello vinto aprì poi la strada ad un’affascinante carriera divisa tra grande e piccolo schermo (recuperate anche Senza Pelle con Kim Rossi Stuart). Un nome importante del nostro cinema di cui riproponiamo qui quel bel dialogo che partiva da Americano Rosso, ma arrivava poi anche all’amore per Kubrick e a una frase di Pasolini…

Burt Young e Sabrina Ferilli in una scena di Americano Rosso.

Partiamo da lì: che ricordo ha di Americano Rosso?
«Bello, bellissimo. Fu il mio passaggio ad una regia di film e, dopo la pubblicità, avevo la possibilità di potermi esprimere senza più usare il cronometro. Fu un’esperienza stupenda perché era una fase primitiva del nostro nuovo cinema. In quegli anni venivamo dalla scomparsa del grande cinema: i grandi registi e autori erano morti. Non c’era più nulla. Il cinema italiano era precipitato nelle fauci di un ideologico cinema d’autore, quasi punitivo per il pubblico, oppure di una commedia sfrenata. Penso all’epoca dei Pierini, delle Giovannone coscialunga. In quell’arco lì si inserì la mia esperienza che era poi l’esperienza di tanti altri giovani registi, come Moretti o Mazzacurati. Eravamo l’onda che si stava producendo da quella cenere, da quelle macerie…».

Fu difficile?
«Diciamo che era difficile proporsi, perché il pubblico guardava solo cinema internazionale o la commedia fatta in un certo modo. Quindi quello fu veramente un tentativo coraggioso, sì. Americano Rosso lo fu ancora di più, probabilmente, perché era anche un film in costume. All’epoca si faceva un cinema che era molto “di ombelico”, si parlava sempre della nostra generazione e di un malessere generalizzato dell’epoca. Americano Rosso no, faceva qualcosa che andava completamente al di fuori dell’esperienza personale…».

alessandro d'alatri
I titoli di testa di Americano Rosso, diretto da Alessandro D’Alatri

Quindi come riuscì a girarlo?
«L’avventura economica fu molto complessa. Devo ringraziare Rai Tre, che era quella di Angelo Guglielmi, perché ogni anno decideva di far debuttare uno o due registi italiani della nuova generazione. Ebbi la fortuna di essere uno dei prescelti. E quindi con questa grande forza alle spalle mi avventurai per le valli del Veneto con uno sceneggiatore al fianco, Enzo Monteleone, che veniva da un Oscar con Mediterraneo, e con un attore americano straordinario che era Burt Young».

Burt Young veniva da Rocky e da C’era una volta in America. Come ci arrivò?
«Conoscevo un regista che lavorava a New York che gli era amico. Così mi feci dare il suo numero e lo contattai. Era un attore che amavo perché l’avevo visto in numerosi film, C’era una volta in America, appunto, ma anche altri. L’incontro con lui fu un’esperienza eccitante. Poi Fabrizio Bentivoglio, un giovane attore, veniva da Turnè, aveva fatto Marrakech Express, veniva dalla scuola del Piccolo e aveva lavorato con Strehler, quindi era un attore interessante e mi divertiva molto fargli fare questo giovane gagà di provincia. E poi c’erano una sfilza di ruoli femminili molto belli perché era tutto incentrato sul matrimonio. Sabrina Ferilli quasi esordiente, Valeria Milillo, anche lei in una forma strepitosa, e tante altre…».

Fabrizio Bentivoglio e Burt Young in un frame.

Americano Rosso era ambientato negli anni Trenta, epoca particolare…
«Era una bellissima occasione per fare un film che evocasse un’Italia che non c’era più. Erano gli anni del Fascismo – ma nel film il Fascismo è quasi marginale, un po’ come ho fatto con Il commissario Ricciardi – ed è stato per me anche una continuità perché da attore ero stato ne Il giardino dei finzi contini – facevo Lino Capolicchio giovane – quindi avevo respirato il set in costume. Americano Rosso è stata la mia seconda esperienza con quegli anni e con Ricciardi ho capitalizzato le due trent’anni dopo. È un’epoca che amo, è prima della guerra e c’è ancora un’Italia sincera, generosa, anche onirica. Avevamo un’ingenuità che abbiamo perduto quando la guerra ha devastato questo Paese. Quell’Italia rurale, contadina, che credeva nella religione, nella famiglia, tutti i valori molto forti dell’epoca di colpo la guerra li ha stroncati e lentamente stanno andando a scomparire anche adesso».

Ripensandoci oggi cos’ha significato quel film per la sua carriera?
«Fu la mia patente. Vinsi il mio primo David di Donatello e una serie di riconoscimenti importanti all’estero. Questo nonostante lo sguardo comunque diffidente del mondo del cinema perché ero considerato un po’ la puttana che veniva dalla pubblicità. C’è sempre stato un po’ l’atteggiamento: “AH, un pubblicitario!”. Non c’è stato articolo che non abbia evidenziato all’epoca il fatto che venissi dalla pubblicità, come se fosse un peccato. Intanto nel cinema americano Ridley Scott, Alan Parker e altri venivano da quel mondo. In Italia si partiva sempre con una zavorra che ci si portava dietro».

Come eravamo: D’Altri sul set negli anni Novanta.

Dal 1991 a oggi: come e quanto è cambiato il cinema italiano?
«Ho visto le premiazioni dei David di Donatello e c’erano centinaia di film che si potevano vedere in piattaforma. Oggi il cinema italiano produce un cinema che non ha pubblico, il 90% di questo cinema non si vede o si vede nei festival. Però il problema è che siamo passati da una produzione col contagocce ad una produzione enorme, immensa, fatta con sempre meno mezzi e con sempre meno qualità di scrittura. Abbiamo giovani cineasti con un senso dell’immagine meravigliosa, il problema sono i contenuti, la scrittura che, per quanto ci si possa digitalizzare, chiede sempre uno sguardo, una visione poetica ma anche realistica, metafisica della vita. Prima di essere immagini, il cinema è scrittura. Noi oggi soffriamo moltissimo perché sono tutti scrittori, sceneggiatori, pubblicisti, registi, quando basterebbe che ognuno facesse il suo e forse ci sarebbe un cinema più qualificante…».

Non abbiamo un’industria…
«Ed è il grande problema di questo Paese. Non abbiamo l’imprenditoria cinematografica. Abbiamo meccanismi di finanziamento del cinema che sono collettivizzazione del prodotto e che alla fine produce ibridi. Si vede che fino a poco tempo fa tutti gli esordienti producevano piccoli capolavori perché lavoravano con totale libertà. Poi ogni volta che vanno al secondo film, dove entra in qualche modo quella mano para-industriale, gli autori si spengono. Il cinema d’autore vive di libertà, il cinema industriale, tra cui metto anche la commedia, vive di specificità. Bisogna saper fare la commedia, bisogna saper fare i film storici, quelli d’azione, quelli con gli effetti speciali, e qui purtroppo secondo me si va un po’ a tentativi, ecco…».

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Alessandro D’Alatri sul set de Il commissario Ricciardi

Negli anni le piattaforme hanno cambiato la fruizione non solo dei film, ma anche delle serie. Si arriverà a un cambiamento radicale rispetto al passato?
«In atto c’è una grande rivoluzione a favore del pubblico e anche dei talent e delle qualifiche professionali. Oggi abbiamo una forma di proposte variegate che hanno consentito in qualche modo di allargare il mercato. Restringendo cosa, però? I guadagni. Perché gli investimenti non sono più gli stessi, noi non siamo un’industria, produciamo una serialità – ma anche un cinema – che molto spesso rimane dentro casa nostra. L’italiano si parla solo in Italia, magari in qualche università nel mondo, ma non è una lingua come l’inglese che ha diversi territori. Noi siamo qui, c’è San Marino, che non vedo come un gran mercato, o il Canton Ticino, e abbiamo finito il nostro percorso (ride, nda)».

Quindi è pessimista?
«No, ma la differenza tra quello che fruiamo del mercato internazionale e quello che produciamo noi in casa – non voglio fare l’ipocrita – è sensibile, visibile. Però, che la competizione esista secondo me è un bene, perché magari è di stimolo alla nostra tragica industria per poter competere con il mercato internazionale. Prima o poi ci dovremo arrivare a questo, pena la nostra cancellazione. La situazione però è positiva, io sono ottimista. Il momento è liquido, tutto può succedere, secondo me anche in una forma di fruizione che allarghi il mercato. Non è un caso che ad esempio nel post-pandemia si giri tanto. Io sto girando adesso e se cerchi degli obiettivi o delle macchine da presa, fai fatica a trovarli perché i materiali sono tutti fuori. C’è una grande ripresa della produzione, quindi questo fa auspicare che comunque i contenuti aumenteranno…».

In azione sul set.

Quali sono le sue ispirazioni? Da chi ha imparato di più?
«Uno dei miei maestri rimane Stanley Kubrick: non ha mai fatto un film identico, ha sempre inventato nuovi linguaggi e lo guardo con il debito rispetto, ma anche come una figura da studiare. Poi sono figlio del cinema italiano, per me Monicelli, Comencini, Rosi, Scola, sono dei percorsi che germinano e sono impossibili da non tenere in considerazione. Forse fu proprio quella l’ispirazione più grande. E poi è arrivata quella valanga di cinema americano che ha arricchito la cineteca personale, un cinema che ha surclassato i valori del nostro piccolo cinema, diventato piccolo, perché all’inizio c’erano i produttori che facevano l’industria, i famosi squali – parlo di De Laurentis, Ponti, Grimaldi, Cristaldi, che di questi quattro, tre se ne sono andati via di colpo, sono andati in America e quando hanno smesso di produrre, il nostro cinema è crollato. Poi c’è anche il cinema asiatico. Sono un divoratore di cinema, a me piace tutto. Cito una frase di Pasolini: “Anche nel peggior film ci sono tracce di vita”. Poche volte nella mia vita me ne sono andato dalla sala perché non mi piaceva quello che stavo vedendo. Ho un atteggiamento di rispetto quasi religioso, in questo senso. Ho sempre resistito fino alla fine. Perché il cinema è il cinema….».

  • Potete vedere Americano Rosso in streaming su Prime Video e su CHILI
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