ROMA – Jesse Eisenberg la serve su un piatto d’argento, A Real Pain? Senz’altro, vedete questo film A distanza di due anni dall’esordio alla regia mai distribuito in sala, almeno, non in quelle italiane, Quando hai finito di salvare il mondo, già piuttosto dimenticabile, nonostante le due ottime prove interpretative di Julianne Moore e Finn Wolfhard, Eisenberg ci riprova. A Real Pain appare un film dalle premesse entusiasmanti e più che convincenti, gonfiate oltremodo dalle critiche ad oggi inspiegabili, piovute incessantemente dal cielo appena dopo la sua presentazione in anteprima mondiale, all’edizione scorsa del Sundance Film Festival. Qualcuno ha gridato al capolavoro, qualcun altro invece alla miglior dramedy degli ultimi vent’anni o più di storia del cinema. Eppure, di tutto questo non se ne ha la benché minima evidenza.

David e Benji sono cugini, cresciuti però come fratelli. Ebrei nelle radici – e non perdono mai l’occasione di dirlo – e americani nello spirito, un tempo si sono compresi e amati, per poi non vedersi più. Il primo, interpretato da un nevrotico, tedioso e insopportabilmente acido Jesse Eisenberg, vive e lavora a New York, ha una moglie giovane e bella – sarà lui a presentarcela come tale – e una figlia piccola. Ha fatto successo con i banner pubblicitari su internet e questa sembra essere una delle moltissime ragioni per porsi instancabilmente su un invisibile piedistallo, guardando chiunque altro dall’alto in basso, perfino noi, il suo pubblico. Il secondo invece, cui dà volto e corpo un logorato e ipersensibile Kieran Culkin – l’unico ricordo che resta del film, è la sua incredibile prova interpretativa (non a caso vincitore del Golden Globes al Miglior attore non protagonista e lanciatissimo front-runner agli Oscar) -, è diventato negli anni la pecora nera della famiglia.

Non ha mai trovato davvero la propria strada e così si è perso, abbandonandosi alla depressione e all’incapacità totale di sopportare e forse addirittura amare la vita. Cosa li riunisce? Un viaggio insieme alla scoperta delle origini familiari, destinazione Polonia. Lì dove la nonna, personaggio chiave del film, nonché presenza fantasmatica e comica, che aleggia su ciascun personaggio di A Real Pain, ha trascorso molti anni della sua vita, raggiungendo poi l’America, dimenticando il dolore e dando vita alla famiglia. Come spesso accade, road movie e racconto familiare vanno a braccetto, basti pensare al meraviglioso Nebraska di Alexander Payne e ancor prima a titoli quali Grandma, Il treno per Darjeeling, Little Miss Sunshine e Una Storia Vera di David Lynch. Non c’è dubbio, sulla strada, oppure alla fine, i legami o si rafforzano o si logorano, specie quelli familiari.

L’interrogativo però non è alla base del secondo lungometraggio da regista di Eisenberg, piuttosto dell’intero filone cinematografico cui pesca e ripesca a più riprese, svanendo perfino in esso, a conferma di un’impronta autoriale ad oggi inesistente, ambigua e forse perfino inavvertita, che guaio. Non importa dunque quanto Eisenberg provi ad indagare e riproporre una certa vena Alleniana, ponendosi dinanzi ad uno specchio, che è fatto tanto di autobiografismo spicciolo, quanto di scimmiottamento forzato e nient’affatto seducente. Ciò che importa è il fulcro di una narrazione, che fin dalle primissime sequenze svela allo spettatore d’essersi perduta, facendo affidamento esclusivamente sulle interpretazioni dei due, che non sono le sole, poiché il viaggio prevede l’incontro con altri individui di mezza età, alla riscoperta delle reciproche origini ebraiche, dunque del dolore e del male causato dallo sterminio.

Caratteristica comune dei road movie è la splendida fotografia, capace di individuare e catturare quasi sempre bellezza e particolarità di qualsiasi possibile scenario. Non è dunque una sorpresa che A Real Pain non la preveda, poiché a svanire in prima battuta come detto, è proprio quella vena di curiosità e attrattiva, propria della sua struttura narrativa. Eisenberg sceneggiatore, che è ben altra cosa dall’Eisenberg interprete, così efficace nel farsi detestare, non solo perde presto interesse nei confronti del punto centrale del film, che non è il viaggio, bensì la nostra (in)capacità di affrontare la solitudine, quando tutto intorno svanisce, perfino la famiglia. Ma anche la necessità di svelarsi e svelarci. Poiché noi dovremmo essere lui, sicuri in apparenza, in superficie, eppure profondamente irrisolti, invidiosi e alla ricerca costante di una conferma e di una stabilità, che appare fragile, eppure è lì, davanti a noi.

Ecco perché lo stress, ecco perché l’ansia, quelle piccole battaglie da non mostrare mai, ma da combattere o forse addirittura da nascondere sotto il tappeto, fingendo controllo e perfezione. Accade però che Eisenberg voglia spingerci a considerare l’altra faccia della medaglia: se non volete essere me, allora volete essere lui. Eppure è qui che sbaglia. Lo spettatore d’oggi non trova più seducente l’incapacità di tollerare la vita, vagabondando di stato d’animo, in stato d’animo, privo di sicurezze e confortato dal caos. Poteva accadere nei primi anni duemila, quando la perdizione di Donnie Darko, accompagnata da Mad World, ancora ci sembrava cosa curiosa e in qualche modo sì, seducente. Celebre il passaggio sulla stranezza, non come insulto, bensì come complimento. Oggi, bombardati sia dal linguaggio cinematografico, che da quello seriale, acquisiamo maggior consapevolezza e siamo pronti ad identificare e identificarci fin da subito in questo o quel dolore, trovandolo confortante e al tempo stesso drammatico.

Ecco perché dei due protagonisti di A Real Pain non è proprio possibile provare alcunché. Del loro dolore non vi è che qualche fantasma, scatto d’ira e fuga. Tutto il resto è ambiguità. Tedioso e pretenzioso nella sua ricerca di scomodità, A Real Pain vorrebbe farsi presto respingente, così come gli individui che racconta, che a suo dire non sono altro se non lo specchio diretto e spietato della società moderna. Spiace per Eisenberg, che altro dire? Il viaggio in Polonia, così come l’arco narrativo di David e Benji e in definitiva il film in sé, è un vero e proprio buco nell’acqua. Un viaggio verso il nulla, lo si potrebbe definire. Ma il nulla è cosa ancor più interessante e Eisenberg, prevedibilmente lo manca.
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