ROMA – In morte delle stampanti 3D. O tutto ciò che avete sempre voluto sapere sull’amore, o ancor più direttamente sul sesso tra cloni – e lo sa bene Nasha, cui presta volto e corpo Naomi Ackie – ma non avete mai osato chiedere. Mickey 17, l’ottavo lungometraggio da regista del pluripremiato Bong Joon-ho, glorioso autore tra gli altri di Memorie di un assassino – Memories of Murder e Parasite, a cinque anni dalla sbornia degli Oscar, ritorna sorprendentemente dalle parti di Snowpiercer, seppur in chiave rom-com, nonché stoner comedy. Il film offre tra i moltissimi elementi d’interesse, una delle interpretazioni più sregolate, divertite e buffe del Robert Pattinson ormai eternamente cupo, logorato e schiacciato dal peso del destino, di titoli quali The Lighthouse e Tenet, passando per Le strade del male e The Batman di Matt Reeves.

Qui siamo in un futuro non troppo lontano dal nostro, c’è chi per sopravvivere, è costretto o quasi ad indebitarsi, scendendo a patti con la parte peggiore di sé e inevitabilmente della società – Strozzinaggio, mafia, politica, il nome non è poi così importante – e c’è chi invece dall’alto del potere controlla, domina e manipola. I primi, chiamati in seguito e non casualmente “i sacrificabili”, non possono far altro che accettare l’ingrato compito d’essere cavie, subendo le peggiori sofferenze e crudeltà dell’uomo e accettando ripetutamente la morte, fino alla noia e al desiderio di ribellione e rivalsa. Mentre gli altri, i potenti, osservano la sofferenza, senza subire mai alcun danno. La crudeltà come spettacolo, come atto d’intrattenimento, torna Pasolini ripetutamente, seppur in chiave demenziale e spassosa. Nel frattempo si presenta ai differenti gradi della società futuristica spaziale di Bong Joon-ho, un nuovo pianeta da conquistare e solo in seguito da fecondare senza alcuna pietà.

Questo il desiderio del villain trumpiano, interpretato dal sempre meraviglioso Mark Ruffalo. Trumpiano a tutti gli effetti, poiché Ruffalo non nasconde mai, o quasi, la volontà di sbeffeggiare e parodiare con grande efficacia, la maschera buffa e al tempo stesso crudele dell’attuale presidente USA in carica Donald Trump. C’è l’evidenza del disprezzo in questa meravigliosa, crudele eppure divertita prova d’attore e il pubblico lo percepisce fin da subito. È qualcosa che lo sguardo cela e poco dopo dichiara, così come il sapiente uso e abuso dei linguaggi espressivi della slapstick comedy, cui sia Ruffalo, che Pattinson aderiscono immediatamente. Poiché come detto, il guaio più grosso, non è tanto il nuovo pianeta da distruggere – Non ci è bastato farlo con la Terra? -, quanto la gestione dei sacrificabili, dei cloni, dei legami emotivi e più in generale, delle persone che ancora amano, temendo giustamente la fine e la morte.

L’elemento politico appartiene da sempre, pur sottotraccia, a Bong Joon-ho. D’altronde Memories of Murder si scagliava più o meno apertamente, contro gli spettri della corruzione, tanto delle forze di polizia, quanto di regime e Snowpiercer allargava ancor più lo sguardo e l’indagine, di un autore interessato in quel caso, ad un vero e proprio cinema di denuncia sociale, per quanto spettacolare e imbastardito da logiche d’intrattenimento tipicamente hollywoodiane. Fino a Okja e Parasite, dapprima la parabola animalista, seguita poi da quella invece umanista, laddove torna con maggiore crudeltà e violenza, lo scontro tra classi, visto in Snowpiercer. Mickey 17 è un bizzarro e riuscito intervallo, mediato ancora una volta da linguaggi hollywoodiani forzatamente estranei, rispetto al cinema cui Bong Joon- ho appartiene e che ha inevitabilmente rivoluzionato. Se è vero che la tensione qui non è di casa, è altrettanto vero, che a venir meno nella parabola dello sfortunato Mickey, non è soltanto quest’ultima, ma anche la crudeltà cui Bong sembrava averci abituati.

La morte, per quanto dolorosa, violenta e grottesca nella sua reiterazione, sospesa tra monotonia e banalità, ci appare in definitiva poco più di un gioco buffo, o meglio, una farsa. Ci è possibile riderne, o altrimenti sorriderne, pur consapevoli dello sguardo amaro e per certi versi disperato, che Bong Joon-ho rivolge all’umanità, ma mai all’amore. Quella scintilla che ancora anima pochi, pochissimi individui, permettendo loro di sopravvivere, nonostante il cinismo e la crudeltà del potere e dell’uomo. Sempre più gratuita, divertita e spaventosa. Lo sa bene Ruffalo, ancor meglio la maschera Trump. Poco importa la natura effettiva dei cloni, finché la memoria, il ricordo e il desiderio d’amare, mantengono salda la presa – e il controllo – sul virtuale. Quella forza oscura e spaventosa, che ci spinge sempre più alla schiavitù e alla perdita delle intenzioni. A salvare Mickey – o i Mickey – al di là dell’amore, entra in campo il potere della linguistica e dell’ascolto. Qualcosa che ad oggi, guardando alla nostra cronaca recente, sembra mancare sempre più.

Torniamo con la memoria allo splendido Arrival di Denis Villeneuve, così come al predecessore Incontri ravvicinati del terzo tipo di Steven Spielberg, ma non sottovalutiamo Mickey 17 perché è una favola buffa, che forte di una stilistica curiosamente figlia del linguaggio fumettistico – il film è tratto però da un romanzo, scritto da Edward Ashton, ripubblicato in Italia da Fanucci come Mickey 7 -, dialoga sia con il nostro presente, che con il nostro futuro. L’erotismo dei corpi poi, mai così seducente, mai così protagonista del cinema di Bong Joon-ho, ma potremmo dire del cinema sci-fi tutto. Un film curioso, adulto e politico, con un lavoro sull’immagine e la linguistica, di estrema cura e di raro intrattenimento. Chi mai avrebbe potuto riflettere sulle potenzialità di un threesome nello spazio e poi tra cloni, se non Bong Joon-ho? In morte delle stampanti 3D? Oppure lunga vita? Bong non esita a rispondere. Ma vale lo stesso per noi?
- VIDEO | Dietro le quinte del film
- VIDEO | Robert Pattinson e Steven Yeun in una clip di Mickey 17:
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