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Trifole – Le Radici Dimenticate | Ydalie Turk e l’imprevedibilità della vita

Il Tartufo Bianco d’Alba e un viaggio nelle memorie del tempo. Dal 17 ottobre al cinema

Una scena di Trifole - Le radici dimenticate di Gabriele Fabbro, dal 17 ottobre al cinema con Officine Ubu
Una scena di Trifole - Le Radici Dimenticate di Gabriele Fabbro, dal 17 ottobre al cinema con Officine Ubu

ROMA – Ambientato nelle Langhe sullo sfondo del mondo del Tartufo Bianco d’Alba, Trifole – Le radici dimenticate di Gabriele Fabbro narra la storia di un ricongiungimento familiare e della riscoperta delle proprie radici e vede come protagonisti un nonno-cercatore di tartufi (Umberto Orsini) e il suo cagnolino Birba, la sua giovane nipote Dalia (Ydalie Turk) che vive a Londra e viene mandata da sua madre Marta (Margherita Buy) ad aiutare il nonno che si trova in difficoltà economiche e di salute. Un film sul preservare le tradizioni che rischiano di essere soffocate dalla liquidità del mondo contemporaneo. Dal 17 ottobre al cinema con Officine UBU.

Ydalie Turk in un momento del film
Ydalie Turk in un momento del film

L’intento dell’autore – stando alla lettura delle note di regia di Trifole – era quello di: «(Volevo) raccontare una storia umile, ma universale, utilizzando tecniche di regia tradizionali e un occhio nostalgico per sottolineare quanto sia profondamente necessario rispettare e conservare la natura e le proprie radici». Ciò che colpisce dalla visione dell’opera seconda di Fabbro è proprio l’impronta registica caratterizzata di uno stile di ripresa delicato, movimenti di camera quasi impercettibili, e inquadrature armoniose su cui adagiare immagini dai colori tenui che cristallizzano momenti di vita semplice dal tempo sospeso: un rubinetto che perde e gocciola, dei pomodori sul lavello, bucce d’arancia sul letto e pasta fatta in casa, una campagna verde dove l’occhio si perde nella ricerca di dettagli.

La rivelazione di Trifole: Birba
La rivelazione di Trifole: Birba

Sono proprio i dettagli a far la differenza in Trifole – «Grande luna significa grandi sorprese. Grandi abbastanza per sistemare tutto. E si aggiusterà. E arriverà, eccome se arriverà. Aspettiamo» dice a un certo punto il nonno alla nipote guardando la luna piena che si affaccia sul casolare – tanto che la narrazione di Fabbro cresce, in un primo momento, come una poesia contemporanea sul valore delle piccole cose, sulla memoria e sulla tradizione che diventa metodo, sull’amore e la sua assenza e sull’avere uno scopo. Passo passo, però, nella sua crescita graduata, la narrazione di Fabbro diventa qualcos’altro. Il suo mondo poetico e dal tempo sospeso si scontra con l’imprevedibilità della vita ricordandoci come, più che il caso in sé, è la fortuna a governare gli uomini e il loro destino.

Una scena di Trifole
Una scena di Trifole

A quel punto, Trifole cambia pelle in modo netto e brusco ed evolve sino a diventare un’opera feroce sulla caducità, la cattiveria e il cinismo degli uomini, sulla memoria annullata e sulle radici che più che dimenticate – come dice il sottotitolo scelto dalla distribuzione italiana – sono semplicemente state strappate via e gettate nell’oblio. Un film, quello di Fabbro, dove non c’è fisicamente (più) spazio per la purezza di sguardo, la poesia e i sogni a occhi aperti e chiusi, esattamente come possono esserlo a volte la vita e il mondo là fuori. Solo ritmi veloci e convulsi e liquidità emotive. E questo ci porta ad una conclusione che crediamo si possa rapportare bene alla spigolosa-ma-bellissima creatura filmica di Fabbro: Il mondo può essere duro. Almeno al cinema, permetteteci di sognare.

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