Capita a tutti di parlare di cinema, si sa. Ogni giorno, tra amici, colleghi, in casa, al lavoro oppure al pub. A prescindere dal livello di conoscenza e competenza, il percorso di ogni discussione è quasi sempre lo stesso: prima la trama, la regia e gli attori, poi la fotografia e, al massimo, se proprio parliamo con spettatori molto attenti, ecco arrivare anche qualche riferimento alla colonna sonora. Perché? Perché, fondamentalmente, di un film quasi sempre interessano, e rimangono, soprattutto la storia e i personaggi, poi le immagini e la musica che sono la benzina che dà velocità e profondità alle emozioni di chi guarda.

Roma di Alfonso Cuarón è un capolavoro, non c’è che dire, già è stato detto e ripetuto dalla Mostra di Venezia in poi, lo hanno detto in tanti, prima e meglio di quanto si dirà in questa sede. Arriva alla notte degli Oscar carico di aspettative, principale indiziato per la statuetta a miglior film e dieci candidature. Una nomination vale però la pena seguire con molta attenzione: quella per il miglior sonoro o sound editing. Fa parte dei premi tecnici, quelli che l’Academy vorrebbe nascondere dietro uno spot, forse roba da addetti ai lavori, ma un elemento fondamentale per trasformare un semplice film in un grande film.

Per Roma è così, tanto che quando il film di Cuarón finisce ci si rende conto di un’assenza enorme: la colonna sonora. Questo non vuol dire però che non ci sia musica, anzi, ma per tutta la durata della pellicola l’audio è ripreso in diretta. Ed è così che l’intero film rotola su un tappeto sonoro denso, assolutamente reale in ogni sua declinazione. A volte l’opera di ricostruzione sembra il risultato di una ricerca antropologica sui suoni del Messico nel 1970 perché Skip Lievsay – otto volte candidato all’Oscar e una statuetta vinta, responsabile del suono e al terzo film con Cuarón – è riuscito in un lavoro formidabile grazie a un particolare sistema di registrazione, il Dolby Atmos, già testato su Gravity.

La lingua originale – sottotitolata – è un valore aggiunto importante: un flusso costante di dialoghi dall’espressività amplificata, per ritmo e toni. Una lingua che suona sempre in bilico tra pianto e canto. La musica c’è semplicemente perché è dentro la vita dei personaggi: che esca dalla radio, cantata dai protagonisti o suonata dalle orchestre. Anche i suoni ambientali sono sempre in primo piano: il caos della città si mescola alle litanie dei venditori di strada, spettacolo e folklore. La sgangherata storiella di Bones dura lo spazio di pochi secondi per fissarsi in testa: è puro suono di una rumorosa normalità che avvolge.

La diversità dell’audio ambientale e dei rumori di Roma è evidente, anche se non si conoscono gli aspetti tecnici che lo rendono tale. Nelle scene girate nel bosco i colpi di pistola sono così secchi, differenti dagli spettacolari e improbabili botti hollywoodiani da risultare immediatamente veri, così come l’oceano, che fa paura per quel suo avvolgersi cupo e continuo attorno alle orecchie. L’audio contribuisce in modo determinante a portare lo spettatore in quel luogo e in quel tempo, a tenerlo dentro il film, al centro di una storia che non vuole solo sembrare vera, ma vuole suonare vera.

Quando una cosa prettamente tecnica è realizzata talmente bene da risultare evidente e palese agli occhi (e alle orecchie) di chiunque – anche allo spettatore più distratto – allora si tratta davvero di un lavoro eccellente. E alla fine, quando passano i titoli di coda, il suono di Roma risulta talmente crudo, senza riverbero, e pure così centrale nel film (sia per ciò che inserisce che per ciò che toglie, vedi la colonna sonora) da essere notato e apprezzato perfino dai famigerati critici da bancone dei pub. E, aspettando l’Oscar, non è cosa da poco.
- The Sounds Of Real Life: la featurette sul suono di Roma
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