ROMA – Blake vive a San Francisco con la sua famiglia. Un giorno scopre di aver ereditato la casa della sua infanzia nella remota natura selvaggia dell’Oregon in seguito alla presunta morte del padre separato. Con il suo matrimonio con Charlotte in declino, la convince a visitare la proprietà con la figlia, Ginger. Di notte, la famiglia viene attaccata da un lupo mannaro e si rifugia all’interno della fattoria, dove Blake inizia a subire una trasformazione mostruosa. Con protagonisti Christopher Abbott, Julia Garner, Sam Jaeger e Matilda Firth ecco Wolf Man, nuova rilettura del cult horror de L’uomo lupo del 1941 a opera di Leigh Whannell, finalmente al cinema con Universal Pictures. Che ci ha abituati bene – Whannell – perché quella di Wolf Man è la seconda volta in carriera in cui il regista si è misurato con la reinterpretazione di un classico dell’orrore appartenente alla Golden Age hollywoodiana.

Ovvero L’uomo invisibile, del 2021, in cui l’omonimo cult del 1933 veniva ricalibrato – nell’anima filmica e nell’inerzia – nelle forme di una sensazionale opera allegorica sul gaslighting con una grandissima Elisabeth Moss. A detta di Whannell: «Questi mostri classici sono sopravvissuti per un motivo. Sono iconici e famosi come Michael Jordan, Marilyn Monroe, Charlie Chaplin, Winston Churchill, tutti questi volti nel corso della storia. La Mummia, Dracula, L’Uomo Invisibile e L’Uomo Lupo sono sul Monte Rushmore della cultura pop. C’è qualcosa in loro che è troppo affascinante, inquietante e misterioso per scomparire». Eppure, lì per lì, quando Blumhouse gli propose la sfida artistica di Wolf Man, non colse esattamente la palla al balzo: «La mia prima risposta fu: No. Ho appena fatto L’Uomo Invisibile. Ma poi pensai a un’angolazione in cui avrei potuto affrontarlo. Dovevo fare il giro dell’isolato e trovare la mia strada».

«In passato, il personaggio del lupo mannaro è stato avvolto attorno a questa grande trasformazione, come la famosa scena di Un lupo mannaro americano a Londra. Quell’uomo lupo è stato superbamente progettato da Rick Baker ed è il marchio di fabbrica per gli effetti pratici. È impossibile superare ciò che ha fatto. Così tanto che ho pensato che non avremmo dovuto cercare di migliorarlo, ma di portarlo in una direzione completamente diversa», ovvero provare ad ancorare Wolf Man a un mondo reale e concreto nei contorni caratteriali di un Blake Lovell padre modello e marito premuroso, ma distante nel rapporto coniugale con la giornalista Charlotte perché preda di un pericoloso lato oscuro frutto di un passato familiare turbolento: un padre violento e survivalista e una madre inferma. La crudeltà di un’infanzia sepolta nel subconscio riemerge nei segreti e nelle incompatibilità della famiglia costruita.

Infatti, un po’ alla maniera del precedente L’uomo invisibile, è bene che non vi aspettiate un horror canonico con Wolf Man. È prima di tutto un (grande) film sulle fragilità umane e la genitorialità e su come i traumi non opportunamente elaborati arrivino ad influire – anche in maniera inconsapevole – sul vissuto ordinario. Da qui il potenziamento valoriale della trasformazione che con Whannell trasmuta da semplice atto di mutazione e di disfacimento del corpo – dichiaratamente ispirato a La Mosca di Cronenberg nella sua vistosa putrefazione – a esplicitazione purulenta del dolore interiore. Un body-horror pregiato, intimo, sostenuto da una scrittura di profonda intelligenza e da una regia che nel percorrere il racconto di immagini fredde e buie dalle atmosfere lugubri e di una tensione raccolta di jump-scare prodotti ma soltanto contenuti, vede infine Whannell incanalare la narrazione verso i binari della tipicità del genere.

Nel terzo atto, infatti, tra distorsioni sonore, manipolazioni visive e presagi di morte, Wolf Man cambia pelle esattamente come il suo protagonista (un Abbott intenso e fragile e dalla recitazione fisica come non mai nda) chiudendo come home invasion dal ritmo serrato con una Garner sensazionale final girl a cui Whannell affida gradualmente lungo la progressiva deflagrazione fisica dell’agente scenico principe – scena dopo scena – la coscienza del racconto. Un film maturo, Wolf Man, inaspettatamente difficile e straordinariamente intenso, ma di cui è caldamente consigliata la visione perché ennesima, formidabile e giocosa espressione del genio registico di un autore più unico che raro come solo sa essere Leigh Whannell con il suo cinema della reinterpretazione.
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