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Valentina Esposito: «Fort Apache, il teatro e la responsabilità della cultura»

Il reinserimento sociale e una seconda possibilità nella vita: Valentina Esposito racconta il progetto

fort apache

MILANO – Da anni il progetto Fort Apache si propone di dare una seconda possibilità agli ex-detenuti che tentano di riprendere in mano la propria vita. Una compagnia teatrale nata all’interno del carcere di Rebibbia e continuata poi fuori dalle sue mura che, attraverso l’arte, il teatro e il cinema, offre una seconda possibilità dopo la scarcerazione. Ora Fort Apache, il documentario che segue la creazione dello spettacolo Famiglia portato in scena nel 2019, è l’unico film italiano in concorso al Festival Internazionale di Shanghai, che si terrà dal 13 al 19 giugno. Una storia di passione, creatività e reinserimento sociale, capace di arrivare al pubblico e alle istituzioni con un forte messaggio per eliminare anche lo stigma che da sempre la società appone all’incarcerazione. Abbiamo parlato con Valentina Esposito, la fondatrice e responsabile di Fort Apache, che ci ha raccontato della nascita del progetto, della sua importanza e dell’emozione di arrivare in concorso a un festival internazionale.

L’IDEA – «Io lavoravo già da parecchi anni all’interno del Penitenziario di Rebibbia Nuovo Complesso, ho iniziato nel 2003 e poi nel 2008 ho assunto la direzione di un reparto. Si era formata all’interno una compagnia di attori con cui avevo instaurato una relazione umana e artistica, eravamo più volte usciti per portare il nostro lavoro al teatro Quirino e al teatro Argentina di Roma. Via via che si avvicinava il momento della dimissione, in me come in loro è nata l’esigenza di continuare l’esperienza. Per molti motivi. Primo fra tutti dare compimento a quelli che sono i presupposti costituzionali del nostro lavoro, quindi accompagnare queste persone nel loro percorso di reinserimento sociale e professionale. E accompagnare significa, anche una volta fuori le mura del carcere, costruire le condizioni per l’inserimento lavorativo. Quindi queste persone si sono formate, e continuano a formarsi all’esterno, e si costruiscono delle possibilità.»

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Valentina Esposito, ideatrice del progetto Fort Apache

IL PROGETTO – «Fort Apache non è solo un luogo di alta formazione, sia per coloro che hanno già iniziato il loro apprendistato all’interno del penitenziario ma ormai anche per altri cittadini ex-detenuti o detenuti in misura alternativa che si approcciano all’esperienza da altre carceri italiane. È anche una struttura di orientamento al lavoro, ci preoccupiamo di costruire delle occasioni di occupabilità relazionandoci con altre produzioni e inserendoli nel circuito casting. Poi ovviamente realizziamo anche noi dei prodotti cinematografici, come in questo caso, per portarli all’attenzione sia del pubblico che dei professionisti del settore. Creiamo delle occasioni di incontro con le istituzioni culturali, quindi con le università e con le scuole perché è chiaro che il dialogo sociale permette di rompere i muri che dividono il dentro e il fuori e rende possibile una comunicazione. Io tra l’altro continuo a essere convinta del fatto che portino sul palcoscenico un valore aggiunto dal punto di vista artistico e questo va al di là di ogni tipo di discorso sul valore sociale dell’esperienza, c’è qualcosa di molto interessante sul piano teatrale in senso stretto. Quel tipo di approccio al lavoro, quel tipo di autenticità con la quale loro riescono a restituire i testi, chiaramente al cinema funziona subito e in teatro è quasi rivoluzionario.»

Durante le riprese del documentario Fort Apache in concorso al Festival di Shanghai

LA RESPONSABILITÀ – «Noi che ci occupiamo di arti visive e performative facciamo da ponte con le istituzioni culturali e con la critica, e siamo investiti un po’ della responsabilità di costruire una nuova cultura rispetto al senso della pena. In qualche modo la nostra società è ancora condizionata da una visione del carcere come afflittivo e punitivo e non inserito all’interno di una prospettiva costituzionale. Anche lo Stato ce l’ha in qualche modo indicato. Nel 2016 ci sono stati gli Stati Generali dell’esecuzione penale, all’epoca voluti dall’ex ministro Andrea Orlando, il quale ha parlato al mondo accademico, al mondo degli artisti, e si demandava questa responsabilità di coadiuvare una nuova sensibilità comune. Il tipo di lavoro che noi cerchiamo di fare e che abbiamo cercato di restituire anche in questo docu-film è quello di avvicinare lo spettatore agli attori evitando di cadere in un racconto che anche involontariamente riproponga la distanza. Abbiamo deciso con i registi sin dall’inizio di evitare lo strumento dell’intervista che in qualche modo ricolloca l’attore nella sua posizione di oggetto studio. Lo sentivo un approccio poco delicato. Invece questo tipo di lavoro è filtrato dalla narrazione, per cui quello che gli attori hanno deciso di condividere con lo spettatore è ciò che in quel momento loro hanno deciso di condividere con i compagni di lavoro o con gli studenti che hanno incontrato o con altri cittadini reclusi con i quali stavano dialogando. Tutto questo la macchina da presa lo ha seguito in modo partecipato ma anche discreto e delicato.»

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Fort Apache in scena con lo spettacolo Famiglia

SHANGHAI – «Questa candidatura è arrivata dopo un anno e mezzo difficilissimo, nel quale abbiamo continuato a portare avanti il lavoro perché in questo tipo di contesti la continuità è fondamentale. Staccare la spina è molto rischioso da tutti i punti di vista perché si toglie un sostegno fortissimo a queste persone. Abbiamo continuato ma senza la possibilità di arrivare sul palcoscenico e di incontrare le persone. La candidatura è stata un’apertura, un respiro molto liberatorio. Siamo orgogliosissimi ovviamente di essere gli unici italiani in concorso e anche un po’ sorpresi, questo lo dico io, di questo risultato, perché comunque è un lavoro che non ha dalla sua alcune cose. L’ingresso in carcere, la reclusione e tutti questi tipi di contenuti non ci sono, è tutto sul fuori quindi è più complicato da veicolare come progetto. Questa cosa ci ha rinsaldato moltissimo e ci ha motivato anche in vista del prossimo allestimento che stiamo preparando per l’autunno. Ne siamo felicissimi e ci ha dato una grande spinta.»

Marcello Fonte in Fort Apache
Marcello Fonte in Fort Apache

IL FUTURO – «Beh, devo essere ottimista per forza. Io ho continuato a costruire così come Fort Apache anche se ci stiamo naturalmente adattando a nuove modalità di lavoro. Per dire, anche questo prossimo allestimento, seppur in modo involontario, ha assorbito il problema del distanziamento sociale e dunque questa questione è diventata indirettamente parte della drammaturgia. Anche se noi non racconteremo affatto uno spettacolo che riguarda nei contenuti la pandemia, è la relazione che è stata compromessa e che è cambiata. E in qualche modo questa cosa è entrata dentro lo spettacolo, allo stesso modo del punto di vista progettuale. Ci siamo rivolti a un teatro che pur rispettando le norme può accogliere duecento persone, quindi dandoci comunque la possibilità di arrivare al grande pubblico. Si tratta di riprogettare il lavoro su nuovi presupposti. Noi però siamo abituati a un’attività di trincea, di resistenza e di resilienza. Ci sono state tante difficoltà, una tra queste anche la pandemia, ma ci piace affrontarla con spirito combattivo.»

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