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Uomini Contro | Gian Maria Volonté e la guerra secondo Francesco Rosi

La Grande Guerra e una preziosa lezione storica tra eroismo e umanità. Ma perché rivederlo?

Uomini Contro
Uomini Contro

MILANO – Una delle operazioni più caratterizzanti ed efficaci che la politica (nel suo senso più ampio) è solita  fare è quella di riscrivere la Storia. Ma attenzione: non nel senso di negarla o cancellarla (cosa che dovrebbe riguardare solo i regimi o le eversioni totalitarie), bensì nel più nobile, utile e democratico bisogno di reinterpretarla e ri-raccontarla da un altro punto prospettico rispetto a quanto già fatto, in modo da portare alla luce una nuova possibile lettura dei fatti e del mondo. Se a questa considerazione aggiungiamo la massima del saggio per cui «Quando raccontiamo la Storia stiamo in realtà sempre anche raccontando un po’ di noi stessi e del nostro presente», non ci stupisce vedere il modo in cui Francesco Rosi, nel 1970, ha rilanciato il libro di Emilio Lussu Un anno sull’altipiano -una raccolta di memorie della Prima Guerra Mondiale, scritta dal futuro azionista sardo durante il suo esilio dovuto al fascismo – e ne ha tratto questo Uomini contro: un film di guerra, politico, storico e di successo.

Uomini contro
Una scena del film

Siamo sulle Prealpi venete, all’incirca a metà strada tra Vicenza e Trento, dove la Divisione dell’irriducibile Generale Leone (Alain Cuny) combatte contro gli austriaci per il controllo del Monte Fior, una postazione considerata decisiva dagli alti comandi, seppur a giorni alterni. Siamo tra il 1916 e il 1917, quando l’esercito è ancora nella mani di Cadorna, un anno prima che Armando Diaz venga nominato Capo di Stato Maggiore dopo la disfatta di Caporetto (e un guerra che sembrava persa si risolve favorevolmente). L’esercito italiano è impreparato, ridicolmente armato (grottesco-tragica la sequenza delle “corazze Pasina”) e comandato da finti duri (come li definirebbe Kubrick) che non solo non hanno reali competenze strategico-tattiche, ma sono anche arroganti, autoritari e privi di qualsiasi umanità. Sono gente del secolo precedente (Cadorna è del 1850) che sta dietro le quinte a giocare al maschio-alfa e a dare ordini a ragazzi di vent’anni pieni d’animo, ma destinati al macello.

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Un’immagine di Uomini contro

Protagonisti di questi momenti storici e sciagurati, insieme alla loro Compagnia di “poveri diavoli”, sono il tenente Ottolenghi (Gian Maria Volonté) e il sottotenente Sassu (Mark Frechette): il primo è un socialista duro e puro, uno di quelli che spera che un bel giorno le armi che hanno distribuito ai soldati vengano puntate verso i generali e, poi, giù fino ad arrivare a Roma, ove il proletariato potrà finalmente prendere il potere; il secondo (che sembra più ispirato a Lussu) è invece un democratico interventista, apparentemente più timido e misurato del compagno, arruolatosi come molti per difendere la causa liberale contro gli imperi centrali. Tutti e due resteranno colpiti nel loro profondo dalla guerra e dai suoi orrori, Ottolenghi vedendo confermate le sue ideologie e rinfrancando la sua contrarietà al modello sociale che ha portato alla guerra; Sassu, più riflessivo, subirà invece un processo graduale di maturazione interna, più sofferto e complesso (che per il momento merita un atteggiamento no-spoiler da parte nostra).

Ad aprire la serie dei film antimilitaristi ambientati nelle Prima Guerra Mondiale ci aveva però già pensato nel 1957 lo Stanley Kubrick di Orizzonti di gloria, film con cui l’opera di Rosi ha molte cose in comune, dal ruolo morale del capitano-sul-campo contrapposto a quello delle alte dirigenze militari e politiche, agli inefficaci ma insistiti assalti-massacro a suon di trombe e fischietti sul fronte oltre la trincea, fino alle (in)evitabili esecuzioni e le ingiustizie di corti marziali più o meno improvvisate e regolari. Ma Uomini contro non poteva limitarsi a questo, a più di un decennio da un predecessore così illustre. L’atteggiamento politico, quindi, non si limita più alla pur presente critica alla guerra (e in particolare quel tipo di guerra), ma si trasforma e diventa qualcosa di più ampio, che mantiene l’opera costantemente a cavallo tra il film politico e il film storico.

La pellicola di Francesco Rosi è infatti un film sociale (e socialista), molto più di quanto non sia un film di guerra. È un film di classe che tenta di aggiustare concetti come quelli di eroe e di martire, solitamente appannaggio di un singolo individuo, per trasformarli in caratteristiche di un popolo e, per estensione, di una intera umanità. Per Uomini contro, la Grande Guerra non l’hanno combattuta e vinta i generali e gli eroi militari, ma l’hanno vissuta guerreggiando (e pagata) i popoli oppressi: lottando e morendo come formiche, o ben che sia andata sopravvivendo per puro caso, come inermi pedine di giochi di potere tra nazioni che li considerano solo dei numerini, delle caselle su cui porre eventualmente una “x” nella lotteria della battaglia navale. Il film è profondamente pessimista quando racconta questo tipo di realtà, ma il regista sembra dare una speranza nell’esortarci a rivalutare quell’esperienza in relazione all’oggi (al suo oggi, ovviamente).

Gian Maria Volonté in una scena del film

La Grande Guerra, al caro prezzo della devastazione e di dieci milioni di morti, avrebbe concesso ai contadini e proletari di tutta Europa – non solo ai sardi e agli italiani, come dimostra la scena in cui gli austriaci smettono di sparare sui nemici inermi – di riconoscersi nel proprio simile e di prendere coscienza della propria situazione, non vedendola più solo come la loro vicenda umana particolare, ma come una condizione che fa da elemento portante di una struttura sociale oppressiva e sfruttatrice. Ovvero: quelli che prima erano semplicemente poveri emarginati, ora si scoprono massa, e capiscono di poter agire, perché tutti insieme hanno fiato, braccia e dignità per essere davvero una forza sociale in grado di cambiare il mondo facendo l’unica cosa possibile: «Resistere, resistere, resistere!»

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