«Posso usare il tuo nome per un negozio?» gli chiese Stanley una mattina mentre erano in auto insieme. «Sentiti libero», gli rispose Emilio al volante. Uno era Kubrick, il più grande regista del Novecento, l’altro Emilio D’Alessandro, autista tuttofare che nel corso di oltre trent’anni al suo fianco ne era diventato amico e confidente. E così, qualche tempo dopo, in una New York ricostruita in studio, sul set di Eyes Wide Shut, ecco spuntare un locale dalle grandi vetrate, l’insegna gialla su sfondo rosso e una scritta: Caffè da Emilio. È uno dei tanti aneddoti contenuti in Stanley Kubrick e me (Il Saggiatore), libro di memorie scritto a quattro mani da D’Alessandro e Filippo Ulivieri nel 2016 poi usato da Alex Infascelli come ispirazione per il documentario S is for Stanley.
Ma chi è Emilio D’Alessandro? E come finì a lavorare per Kubrick? Tutto merito di una statua di porcella a forma di fallo. La scultura Rocking Machine di Herman Makkink, scelta dal regista per una delle sequenza più celebri e disturbanti di Arancia meccanica. A portarla, a notte fonda tra le strade londinesi ghiacciate, sul set allestito in un appartamento a Thamesmead, proprio D’Alessandro, all’epoca autista per una compagnia di taxi privati. Lui, che era arrivato in Inghilterra dieci anni prima, deciso a lasciare la sua Cassino in cerca di fortuna pur di non arruolarsi per la leva obbligatoria, con le immagini della guerra vissuta da bambino ancora vivide davanti agli occhi.
Preciso, puntuale, affidabile e un asso al volante grazie alla sua passione per le auto e la guida sportiva che lo aveva portato, qualche anno prima, a gareggiare in Formula Ford contro nomi del calibro di James Hunt. Così, dopo un breve colloquio, Kubrick lo assume come autista personale. Ma non ci vuole poi molto prima che il regista gli inizi ad affidare molti più compiti, spesso scritti su biglietti disseminati per casa e firmati con una semplice S. Dal prendersi cura dei suoi cani e gatti al riparare elettrodomestici difettosi, dallo scorrazzare gli attori di cui diventerà amico ad occuparsi della logistica dei suoi set.
Uno dei pochi ad avere accesso ad aree della casa interdette ai più, così devoto al suo lavoro da finire con il litigare con la moglie Janette che faticava ad usare il telefono perché sempre occupato dalle continue telefonate tra il marito e Kubrick. Inconveniente risolto dal regista grazie ad una linea diretta privata tra i due. Un rapporto di lavoro trasformatosi in fiducia e amicizia, tanto che Emilio diventò responsabile dei suoi uffici privati, lui che i film di Kubrick li vedrà solo una volta tornato a vivere in Italia. A ricordagli di quei giorni passati tra i corridoi dell’Overlook Hotel o il Vietnam ricostruito a qualche chilometro da Londra, una miriade di cimeli, lettere o spezzoni di pellicola custoditi in garage.
Dalla moquette su cui gironzolava in triciclo il piccolo Danny al cappotto indossato da Tom Cruise in Eyes Wide Shut, a cui fece accorciare le maniche per lavorare in campagna, fino ad una delle giacche militari di Full Metal Jacket in cui, solo qualche anno fa, trovò un biglietto di S scritto dopo aver scoperto che il suo amico sarebbe tornato per sempre in Italia. Oggi molti di quegli oggetti sono stati venduti all’asta per la gioia dei collezionisti, ma quello che resta è molto più prezioso. Il ricordo di una vita condivisa, «del sorriso di Stanley a fine giornata, che mi ripagava di tutte le fatiche, spronandomi a continuare».
- Hot Corn Social Club | Kubrick 20: Hot Corn riporta in sala Shining
- Stanley Kubrick e il suono del suo cinema nel podcast di Hot Corn
- Kubrick 20 | Un minuto per ricordare Kubrick a vent’anni dalla morte
Lascia un Commento