MILANO – «Siamo quel che resta del circo e tutti quelli che lavorano a questo concerto sono qui perché è così che vogliono vivere…». Una delle cose più belle di Us + Them – che arriva ora in streaming dopo il passaggio alla Mostra di Venezia e i tre giorni in sala (lo trovate in digitale qui) – arriva solo alla fine del concerto filmato da Sean Evans, oltre le due ore di musica, perfino dopo i titoli di coda cantati dai bambini. Si chiama A Fleeting Glimpse ed è – letteralmente – uno «sguardo fugace» sul dietro le quinte del concerto, un’istantanea di venti minuti filmata quasi interamente in bianco e nero (sgranato, bellissimo) sulla vita di un uomo di settantasei anni che rifiuta di diventare un vecchio dinosauro, nonostante i Sex Pistols lo definissero così già alla fine degli anni Settanta.

«Ginseng!», urla Roger Waters a un certo punto del documentario, uscendo a petto nudo dal suo camerino, prima di finire a passeggiare nel corridoio che porta al palco per osservare attentamente le foto appese ai muri e capire chi sono i musicisti incorniciati: «Fuck you. Where is my fuckin’ photo?», chiede, ridendo, prima di fissarsi su un’immagine e urlare: «Oh no, no, fuck me, questo è MC5 come si chiama, dai, quello di X Factor». Il suggerimento arriva da Jonathan Wilson, chitarrista del tour, lì al suo fianco: «No, no, Roger, è Adam Levine, Adam Levine» (cantante dei Maroon 5, da cui il nome sparato da Waters, nda). A questo punto lui finge un conato di vomito e dice: «No, è Madama Indovina o qualcosa del genere».

Insomma, un pugno di minuti per distruggere la figura del pomposo idiota integralista creato – certo, anche per colpa sua – dai tempi della diatriba con Gilmour e conseguente fine dei Pink Floyd. Ma in A Fleeting Glimpse non c’è tempo per la nostalgia, non c’è nemmeno la voglia della retorica rock, ma solo un’enorme necessità del presente, la voglia di esserci, a tutti i costi, di dare senso a ogni gesto, di creare qualcosa ora, senza la celebrazione dei giorni che furono. «Siamo qui ed è entusiasmante essere qui», riflette a un certo punto, prima di mettersi a dialogare con le coriste – con una birra in mano – su quale sia il modo migliore di affrontare una canzone.

Insomma, Waters oltre Waters, l’uomo dietro la leggenda: potrebbe vivere mettendo in scena la mummia dei giorni gloriosi (vedi Rolling Stones, sì), invece ambisce a creare uno show in cui l’atto politico è fondamentale quasi quanto l’aspetto sonoro e non importa se così facendo si inimica una parte del pubblico o dei suoi vecchi fan perché la (sua) realtà è questa. «No, non è una buona idea costruire muri», dice a un certo punto, «e no, non è una buona idea puntare il dito verso gente di altri Paesi, ma se questo concerto possa avere qualche effetto o influenza su chi lo vede, non ne ho idea». Poi si mette a giocare con le maschere dei maiali, chiedendosi come e quando indossarle durante Pigs che, nella nuova versione, è completamente costruita su Donald Trump.

Così, in un momento in cui sui social migliaia di utenti chiedono agli artisti che parlano di politica di smetterla e«stick to music» – ovvero parlare solo di musica, un’idiozia totale arrivata perfino a Tom Morello dei Rage Against The Machine, non esattamente i Pooh – Waters ignora il politically correct, non ha paura di prendere posizioni radicali, difende Julian Assange, richiama l’attenzione sulla Palestina dalla sua pagina Instagram e accusa la polizia per le violenze durante le proteste del Black Lives Matter. Alla faccia del dinosauro.
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