ROMA – Il cinema di Jacques Tati rappresenta da sempre un unicum nella storia del cinema. Attraverso l’alter-ego di Monsieur Hulot – maschera comica francese a metà tra Charlie Chaplin e Buster Keaton (che di lui dirà: «Tati ha cominciato là dove noi abbiamo finito») che fece della slapstick il suo linguaggio – seppe leggere le inerzie del suo tempo con una semplicità e leggerezza disarmante. Non fa eccezione in questo Mio Zio del 1958, con cui Tati scandagliò l’ossessione della società francese per la modernità e vinse l’Oscar del 1959 per il Miglior film straniero, ritirato con un discorso breve, intenso e decisamente esilarante: «Noto che le persone che parlano il peggior inglese sono sempre quelle che vogliono parlare più degli altri. Grazie» .

Mio Zio rappresentò un autentico spartiacque nella carriera del Tati autore che, arrivato alla terza regia (e al primo film a colori), scelse di calibrare il tono comico del suo cinema al servizio della critica sociale gettando, al contempo, le basi tematiche di quel Play Time – Tempo di divertimento (di cui potete leggere qui) del 1967, esasperazione nichilistica e fredda della modernità nella società, visiva e concettuale, senza alcun margine d’incursione per la nostalgia e i sentimenti. Nel mezzo c’è il linguaggio filmico del suo cinema, insolito e straniante, in bilico tra una comicità chapliniana, di gag e scatti umoristici, e il voler semplicemente lasciar parlare le immagini piuttosto che tessere le fila di un intreccio canonico.

In Mio Zio, manco a dirlo, l’espediente risulta poetico, efficace, permettendo di far vivere la narrazione di un contrasto scenico tra la vita, la calorosità e la solidarietà del popolo e l’ipocrisia della borghesia nel compiacere sé stessa nel non riuscire a guardare oltre il proprio naso. Non è un caso infatti se l’incipit di Mio Zio (lo trovate su MUBI) ruota tutto intorno al concatenamento di alcune immagini: la spensieratezza di un cane randagio che corre in giro, un telefono lasciato penzolare, il grigiore e l’opulenza della fabbrica e di Villa Arpel dai percorsi ben delineati. Ma è di una spontaneità costruita che parliamo, pur dosata in un andamento ritmico graduale, meticoloso, lasciato crescere tra immagini vivide di solitudine.

Perché è di solitudine e alienazione borghese che racconta Tati in Mio Zio, lasciate trasparire ora nell’ossessione di madame Arpel (Adrienne Servantie) per la pulizia e l’apparenza, ora in un monsieur Arpel (Jean-Pierre Zola) industriale workaholic, ora nel piccolo Gérard Arpel (Alain Bécourt) intento a giocare con la palla in un angolo del perfetto giardino. Lo stesso racconto di immagini però prende vita nel calore del popolo tra scherzi, pozzanghere su cui saltare e nell’odore delle frittelle calde con marmellata e zucchero a velo. Poi lo scontro tra i due mondi, con il legame sempre più solido tra Gérard e lo zio Hulot che dal secondo atto in poi vede abbattere il muro di classe tra i due mondi attraverso cui aprire un mondo di colori al grigiore di vita degli Arpel.

Elemento di rilievo nello sviluppo scenico di Mio Zio è dato dalla dimensione scenografica abilmente costruita da Henri Schmitt che, oltre che per dare colore al racconto, diventa arguto simbolismo della condizione degli Arpel e – di riflesso – della borghesia in generale. La struttura perfettamente geometrica di Villa Arpel, ad esempio, si dipana in una coerenza scenica di esterni in grigio spento e blu intenso e di interni futuristi, minimali, del tutto sprovvisti di tappeti ma popolati di minuscoli divani verdi, sedia dalla base viola e tavoli dal design moderno ma del tutto privi d’identità, freddi. In aperto contrasto è invece la casa di Hulot: un’architettura multiforme e sgraziata ma colorata e vissuta caratterizzata di scale esterne, palazzine a tre piani, finestre, finestrelle e bizzarri comignoli.

E non soltanto abitazioni. La valenza narrativa della scenografia di Mio Zio si sviluppa a macchia d’olio avvolgendo anche la scuola dalla morfologia più vicina a un discount che non l’ingresso in un istituto con funzione didattica, o della fabbrica Arpel, tempio della modernità e del progresso tecnologico, caratterizzato, in regia, da campi lunghi a perdita d’occhio nel glaciale freddo di stanze in tinta grigio scuro. È tutto funzionale in Mio Zio. Tutto al servizio del conflitto tra l’energia del povero popolo e la sterilità degli agiati borghesi. Sino a quel prodigioso e atipico terzo atto in cui Tati, tra fabbrica e Villa Arpel, getta un faro di luce sull’impatto avuto dalla tecnologia nella (sua) quotidianità regalando agli spettatori un prezioso omaggio al chapliniano Tempi moderni che è pura e perfetta nota poetica.

Ed ecco la genialità! Attraverso le pieghe della narrazione di Mio Zio, Tati/Hulot sveste i panni di maschera comica per evolvere a spettatore dell’evoluzione tecnologica del suo tempo. Progresso a cui sceglie deliberatamente di non adeguarsi lasciando che siano gli altri a farlo: per lui ci sono ancora le care vecchie abitudini. Presa di posizione scenica (e non) comunicataci da Tati attraverso una recitazione metodica, fisica, fatta di scatti e di gestualità, di poche parole, molta espressività e tanti silenzi. Un approccio che, nell’inquadrare perfettamente la (nuova) poetica dell’autore francese, vive di un linguaggio filmico che finisce con l’essere, al contempo, tradizione nostalgica e innovazione tecnica.

Un’opera irripetibile e originale Mio Zio che, nel rendere consapevole gli spettatori dei propri limiti come esseri umani e nel rapporto con la tecnologia e l’arrembante progressismo, finisce con il porre l’accento sulle piccole cose di ogni giorno, quelle per cui vale la pena vivere: la spontaneità, la convivialità, il sentirsi bambini (ancora una volta) e una buona frittella calda di tanto in tanto. Oggi come ieri, sessantasei anni dopo. Perché il grande cinema è così: senza tempo e fuori dal tempo. E quello giocoso, intelligente e spensierato di Jacques Tati – tutto, da Giorno di festa a Play Time – Tempo di divertimento, passando per Le vacanze del signor Hulot e Monsieur Hulot nel caos del traffico – ha un posto speciale nel pantheon dell’immortalità artistica.
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