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L’altra faccia di Venezia e quel documentario che non ti aspetti: Il Coraggio del Leone

Un’edizione particolare, le riprese e il futuro del cinema. Marco Spagnoli racconta il suo documentario

Anna Foglietta nel poster de Il coraggio del leone.

MILANO – «No, non era facile. Non si dovrebbe dire, ma tra le cose che ho fatto negli ultimi anni è stata la più complicata perché veramente dovevamo cercare di raccontare quello che succedeva e allo stesso tempo coinvolgere lo spettatore. La fortuna è stata quella di aver avuto un’attrice straordinaria come Anna». Così Marco Spagnoli inizia a raccontare il suo documentario Il Coraggio del Leone, che ha aperto il Biografilm Festival, un racconto sull’ultima Mostra del Cinema di Venezia in tutta la sua particolarità, un’edizione resa possibile quando nessuno ancora nel mondo pensava a riaprire i festival. E a portarci in questo viaggio è la voce narrante della madrina, Anna Foglietta.

il coraggio del leone
Anna Foglietta arriva a Venezia in una scena de Il coraggio del Leone

Ma come è nata l’idea di realizzare un documentario su Venezia?
«Rolling Stone, che mi ha contattato e mi ha detto “Abbiamo l’idea di fare a Venezia un documentario, ti mandiamo un soggetto che abbiamo realizzato”. Io l’ho letto con interesse e ho capito non volevo fare una cosa asettica, volevo che lo spettatore fosse guidato all’interno del racconto da qualcuno. Quindi a un certo punto abbiamo contattato Anna Foglietta e ho scoperto che anche lei voleva documentare la sua esperienza a Venezia, anche se in modo un po’ diverso rispetto a noi. Abbiamo unito i due punti di vista ed è diventato questo progetto basato sull’idea di raccontare la Mostra del Cinema attraverso il suo sguardo, quello che lei fa soprattutto nelle ultime ore della Mostra, che sono quelle decisive in cui lei ha vissuto gli ultimi momenti di tensione perché erano quelli in cui sarebbe potuto finire tutto – cosa che fortunatamente non è successa. L’abbiamo mostrata in tutta la sua stranezza. C’è questo contrasto che abbiamo voluto creare con i repertori dove c’è gente ammassata uno sopra l’altro e questa edizione invece dove non abbiamo le persone, la città è praticamente vuota e anche la Mostra ha questo aspetto quasi spettrale».

Come è stato affrontare le riprese con tutte le restrizioni?
«Per niente facile. Avevamo veramente tantissimi limiti di tutti i generi, ma le restrizioni facevano parte del racconto. Per me è importante sottolineare che avevo una traccia, non sapevo cosa volevo raccontare. Tutto quello che si vede è parte integrante di un racconto con i suoi limiti e la sua idea di non voler fare un backstage. C’è stato qualcuno che ha scritto che è come un backstage ma in realtà non lo è, perché il backstage è una cosa concordata dalla produzione dove tutti sono contenti. Invece non è così. Questo è proprio un racconto di quello che è successo. Volevamo riportare soprattutto la Mostra con Anna. Questa è un’altra regola: l’Anna Foglietta donna è la nostra, l’Anna Foglietta “diva” è quella RAI. Abbiamo cercato di raccontare le due Anne».

marco spagnoli
Alberto Barbera e Anna Foglietta a Venezia 77., raccontata da Marco Spagnoli

Venezia è stata considerata l’evento che ha dato un esempio a tutto il mondo. Ha contribuito anche a risollevare l’immagine dell’Italia?

«Io sono uno che racconta le eccellenze italiane. Non sarei nemmeno in grado di raccontare delle storie negative perché anche di queste amo recuperare quelli che cambiano le cose, lo trovo più interessante. Poi basta aprire i giornali per farsi raccontare le cose che non funzionano e così via. Però nonostante questa negatività che ci sentiamo raccontare, penso che l’Italia faccia delle cose eccezionali. E la Mostra è una di queste. Per me era importante raccontare questa storia anche dal punto di vista politico, passatemi il termine. Non tanto per fare del nazionalismo ma per dire che cinema e cultura hanno una funzione politica. Per dire, se non ci fosse stata la Mostra con certi valori culturali e artistici, a cosa avremmo dovuto guardare? Per questo il documentario si chiama Il Coraggio del Leone, perché il leone per Venezia è stato un simbolo nella sua storia».

Cannes 2021 invece ha già suscitato polemiche…

«Questo documentario ha un contesto, che è quello di ciò che succedeva l’anno scorso. Quando siamo stati in lockdown e distanziati, ci veniva detto che avremmo vissuto vite chiusi in casa e bloccati, ma quella non è vita, è sopravvivere. Ecco, noi, senza esagerare, volevamo ribadire che c’è la vita, e la vita può e deve essere vissuta. Gli italiani hanno detto a settembre: “Facciamo una mostra del cinema perché non ci arrendiamo all’idea di stare chiusi in casa e che gli eventi non si possano fare”. Gli italiani funzionano sempre storicamente meglio nei momenti di difficoltà, sappiamo tutto quello che abbiamo fatto, e questo fa parte di quel racconto lì. Quando ho letto i protocolli di Cannes… ma diciamo, uno può andare e fare il tampone a diciottomila persone ogni due giorni? Ecco, questo vuol dire, a maggior ragione, il valore dei protocolli italiani. A Venezia non è successo nulla, lo dice Cicutto».

Marco Spagnoli, il regista de Il coraggio del Leone

Durante la pandemia molti credevano che il cinema non sarebbe riuscito a rialzarsi, un po’ per essere stato declassato a tempo libero, un po’ per lo streaming. Ma non è stato così.
«Il fatto che il cinema sia culturalmente sotto attacco e che non sia più al centro della discussione culturale, non necessariamente solo di questo Paese, è un fenomeno che c’è da anni. Quando il cinema è finito in mano alle corporations, quando è stata la televisione a impossessarsene, il suo destino era segnato. Questa cosa, che io peraltro avevo raccontato nel mio documentario Cecchi Gori – Una famiglia italiana, dove abbiamo raccontato come a un certo punto si decide che la televisione avrebbe preso il sopravvento da tutti i punti di vista, è il primo passaggio. Declassato a tempo libero perché fa comodo che sia così, perché certamente il cinema, tra divertimento e d’autore, è molto più scomodo di altre arti. Con lo streaming a un certo punto il fenomeno delle serie, che hanno oggi la stessa funzione che aveva il romanzo storico nell’Ottocento – cioè sono i veri veicoli di cultura ma perché sono il medium degli scrittori – ha affascinato il pubblico, che invece al cinema è spesso in mano alle idee di quattro quadranti hollywoodiani. Quel discorso culturale e anche di natura politica viene meno rispetto alle esigenze di tutte le questioni commerciali».

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Spagnoli sul set di Cecchi Gori – Una famiglia italiana

Lo stesso discorso vale per la sala?
«Io sono certo che il cinema non morirà mai, né come tipologia di prodotto né come fruizione. Anche la sala non morirà. Il problema è che se vuoi riportare la gente al cinema devi avere film validi. È chiaro che questo presuppone un investimento, e io in questo momento non ne vedo di grandi. E soprattutto non puoi avere una visione del cinema romano-centrica, Milano-centrica, Torino-centrica. A Campobasso credo che ci siano una o due sale, a Reggio Calabria due. Che cosa vuoi rivendicare se non hai il luogo dove la gente può andare? E detto questo, puoi andare al cinema in sale scomode, che non funzionano, con il parcheggio lontano? La logistica è fondamentale. Noi possiamo parlare di cinema ma anche i luoghi devono essere valorizzati».

Bisogna anche scegliere di far uscire i film in sala…
«Certo, ci vuole la capacità di comunicazione: cartellonistica, trailer. Le campagne di alcune associazioni però non raggiungono gli spettatori veri, raggiungono noi addetti ai lavori che poi lo riportiamo, ma questo è un messaggio mediato che non funziona. Non è un caso che un bellissimo documentario come Alida di Mimmo Verdesca abbia funzionato anche in sala, perché quando c’è la qualità la gente la premia sempre. Poi magari le distribuzioni pensano che è meglio andare in streaming così tagliano i costi di marketing. Ma anche qui, se non guidi lo spettatore, anche uno informato, davanti alle piattaforme quanto si sentirà smarrito? È una cosa complicata, perché oggi Hollywood non appartiene ai produttori, ma alle grandi corporations che hanno interessi di altro carattere. L’acquisizione della MGM da parte di Amazon è uno dei segnali più significativi da questo punto di vista. È un mondo di grande cambiamento ed è difficile dare una risposta. Il cinema non morirà mai però, questo è sicuro».

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