ROMA – Perché l’origine del male in Venerdì 13 viene sempre o quasi associata esclusivamente alla figura enigmatica e temibile di Jason Voorhees? Ancora, cosa scatena la perversione e la furia omicida del Norman Bates di Psyco? La madre, o almeno, quanto resta del suo ricordo, che si tratti di un oggetto, una fotografia, un indumento oppure un’arma. La storia si ripete nel sorprendente e controverso esordio al lungometraggio di Chris Nash, In A Violent Nature, presentato in anteprima mondiale all’ultima edizione del Sundance Film Festival, acquisito in seguito dalla sempre più nota piattaforma horror Shudder.
Una catenina d’oro. Ecco quanto resta a Johnny di sua madre. Ecco quello che gli viene portato via ancora e ancora dagli ignari backpackers, che abitualmente raggiungono le profondità della foresta canadese, peraltro mai realmente nominata, nella quale quest’ultimo riposa. Il patto è chiaro, per non morire è sufficiente non appropriarsi di quella catenina, al contrario, chi la farà sua, accetterà inconsapevolmente di non avere più alcuna via di fuga. I giovani co-protagonisti di In A Violent Nature però questo non lo sanno, così appena ritrovata la catenina appesa ad un vecchio capanno, non possono far altro che portarla via, risvegliando il male, dunque la morte, quella più efferata, sanguinosa e infernale possibile.
Se è vero che il cinema horror ci ha sempre abituati ad una dose immancabile, tanto di adrenalina, quanto di rapidità, è altrettanto vero che il suo esatto opposto è capace, se efficacemente gestito, in termini di narrazione e atmosfera, di generare e comunicare le medesime sensazioni, probabilmente ancor più estremizzate. Poiché ciò che immaginiamo possa accadere, non giunge più a noi nel corso di pochi attimi, piuttosto in un margine di tempo estremamente ampio e dilatato, che ci logora e spinge sempre più a sperare che effettivamente qualcosa possa cambiare, pur sapendo che così non sarà.
Intercettata abilmente da Chris Nash, l’anima di In A Violent Nature è proprio questa, la dilatazione temporale, il prolungamento del dolore e del male e la corrispondenza esatta tra il tempo della natura e quello della violenza. Johnny infatti non ha fretta, il suo è un lento e rassegnato cammino di solitudine, morte e rassegnazione. Gli animali non lo temono, la foresta nemmeno, come se tra loro esistesse un antico patto di tolleranza. Tra meravigliosi tramonti, che perfino il tono più cupo e angosciante del film non riesce a celare e così suggestive albe e suoni della natura, che se in qualche caso spezzano la tensione, in altri la acuiscono, In A Violent Nature fa centro, apprendendo al meglio le differenti lezioni impartite da Picnic ad Hanging Rock di Peter Weir e The Blair Witch Project – Il mistero della strega di Blair di Daniel Myrick e Eduardo Sánchez.
Qui il male è visibile, meglio, estremamente visibile. Ha un corpo massiccio ed un volto orrendamente deformato, che per l’intera durata del film, o quasi, resta coperto da una antica maschera da pompiere. Ha ragione Stephen King quando definisce Johnny come: «Il Minion più terrificante al mondo», poiché è proprio così che appare, fino all’atteso svelamento, quello che ci mostra una volta per tutte, tanto la sua natura estetica, quanto quella morale, dunque la macchina giocattolo, l’infanzia rubata e la rabbia.
È sempre più raro guardando al panorama cinematografico d’oggi, rintracciare delle incursioni autoriali così personali, ispirate e pensate nel cinema horror. Lo slasher di Chris Nash infatti è quanto di più distante possa esservi dalla narrazione e dall’estetica canonica del cinema horror. Un po’ per la questione del punto di vista unico, quella di Johnny, che per la prima volta o quasi, accorcia totalmente le distanze tra cinema e videogioco, costringendo plot e vittime – nonché co-protagonisti – allo sfondo, privilegiando colui che silenziosamente osserva e segue e un po’ per la volontà di Nash di girare il suo slasher horror di debutto, come se fosse un dramma esistenziale scaturito dallo sguardo di Andrei Tarkovsky, Terrence Malick e Nicolas Winding Refn.
Controversie a parte sull’induzione al vomito ed il presunto contenuto visivo ritenuto dai più eccessivamente violento; poiché il film di Nash certamente include delle sequenze brutali, che la dilatazione temporale estremizza, fino alla loro resa più manicale, dettagliata e ripugnante possibile; In A Violent Nature è una grande sorpresa, il cui merito più grande è quello d’aver svelato al panorama cinematografico internazionale, le indubbie potenzialità di un prossimo autore, Chris Nash, destinato a sorprendere sempre più.
Splendida la fotografia curata da Pierce Derks. Sentiremo parlare di Nash, sentiremo parlare di In A Violent Nature, un horror atipico che muovendosi sottotraccia attraverso i linguaggi del western, omaggia gli indimenticabili film di Tobe Hooper, Sean S. Cunningham, Tony Maylam e Sam Raimi. Forse perfino Michelangelo Antonioni avrebbe potuto apprezzarlo. Fin da ora un instant cult.
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- VIDEO | Qui per il trailer di In A Violent Nature:
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