ROMA – Inverno 1862. Nel pieno della Guerra di Secessione, l’esercito degli Stati Uniti invia ad ovest una compagnia di volontari con il compito di perlustrare e presidiare le terre inesplorate. La missione travolge un pugno di uomini in armi, svelando loro il senso ultimo del proprio viaggio verso la frontiera. Parte da qui I Dannati, il nuovo film di Roberto Minervini presentato in anteprima mondiale a Cannes 77 nella sezione Un Certain Regard e ora al cinema con Lucky Red. Un progetto che per Minervini ha rappresentato un’autentica novità: «Dopo molti film nati in quello spazio ibrido che è il documentario, I Dannati rappresenta una sfida nuova: un film di finzione, storico, in costume, senza sacrificare il realismo, l’immediatezza e l’intimità dei miei lavori precedenti…».
Non a caso, arrivato dopo quel Louisiana, spaccato di vita al limite in un’America allo sbando e malinconica e Che fare quando il mondo è in fiamme?, che ha visto Minervini affrontare lo spinoso tema delle violenze razziali dal punto di vista di una comunità afro-americana scossa dagli eventi della sparatoria di Baton Rouge del 2016. Infine proprio I Dannati come diretta prosecuzione tematica in un ritorno al passato con cui affrontare il problema alla base: «È stata una scelta molto consapevole quella di ambientare il film nel momento storico in cui affondano le radici la grande divisione tra Nord e Sud, la statalizzazione del cristianesimo, e una sorta di prototipo di mascolinità tossica. Volevo capire perché queste problematiche persistano tuttora, perché l’argomento della Guerra Civile Americana sia tornato in auge negli ultimi anni».
Un argomento tutt’altro che casuale per Minervini: «Quel periodo ha dato forma a un senso di sfiducia nei confronti delle istituzioni. Volevo che I Dannati si riallacciasse all’esperienza di persone che sono state lasciate in un limbo durante la guerra, nel mezzo di una transizione da valori molto conservatori a una nuova società: persone che non sapevano nemmeno in nome di cosa stessero combattendo. Molti nell’esercito americano erano mercenari che si erano arruolati senza interessarsi, né tantomeno comprendere appieno, le cause della guerra. Con un Paese in crisi, le persone si erano schierate a volte sulla base di una semplice casualità geografica, a volte in modo opportunistico. L’approccio in questo caso è stato quello di mettere un gruppo di persone nel bel mezzo del nulla, o meglio nelle terre selvagge del Montana, e lasciarle lì a cercare di capire».
Che poi è un po’ quello che cerca di fare lo spettatore con I Dannati. Specie dopo un incipit come quello orchestrato da Minervini. Due lupi che si avventano su di un cervo smembrandone le membra morso dopo morso. E la camera sta lì, in una soggettiva che assimila l’occhio dello spettatore in immagini in presa diretta che si avvicina, di netto, da campo medio in piano medio. Poi i titoli di testa, su sfondo nero, mentre sentiamo ancora le mascelle in movimento dei predatori. E in fondo non c’è incipit migliore di questo nel raccontare poi di uomini smarriti, disperati, rotti o pronti a rompersi, che prendono il proprio destino di petto incuranti di tutto. Quel “tutto” è la guerra. Ogni guerra. Il grande livellatore universale che ribalta la percezione dell’uomo ricordandogli la differenza che c’è tra giusto e sbagliato, bene e male.
Ma la guerra scelta da Minervini per I Dannati non è una guerra come tutte le altre. È la Guerra di Secessione, nota anche come Guerra Civile Americana. La guerra che ha spezzato in due l’America dividendola in due fazioni nette, distinte, dalla componente valoriale dicotomica: Unionisti e Confederati, e quindi libertà e schiavitù. Una guerra fratricida che ha visto americani uccidere altri americani: amici, fratelli, vicini di casa. E quindi una guerra di ideologie, di riflessioni e che porta e si presta – forse più di tante altre – a riflessioni sul valore dell’uomo, sulla famiglia e sulla vita in sé. Non è di certo un caso, infatti, se il primo proiettile lo udiamo dopo appena quaranta minuti. Più che sulla guerra, I Dannati è un film sugli orrori della guerra e sulle cicatrici emotive che lasciano sugli uomini.
Un po’ sulla scia dell’intramontabile La sottile linea rossa di Terrence Malick – qui rievocato nei silenzi e nell’insita poesia delle immagini – Minervini abbraccia il genere bellico in forma antimilitarista e in un’inusuale cornice western, riconducendolo alla carne dei soldati e al senso della loro esistenza, depauperata dalla divisa e dalla carica valoriale in esso contenuta. E quindi la scelta di raccontarne scene di vita tra attese e sigarette, cameratismo e caffè gocciolante, partite a poker e di baseball, accampamenti e preghiere a Dio, albe e tramonti, e gloria, famiglia, poesia e compagni d’armi. Momenti scenici avvolti da Minervini in immagini pulite in luce naturale di inquadrature intense ma mai fisse, caratterizzate di impercettibili movimenti camera a mano che vanno a comporre un affresco d’umanità e disumanità in tempo di guerra fatto di odori, sapori, sensazioni e suggestioni.
Poi però ci sono anche gli spari in I Dannati. La guerra entra in scena e Minervini, nell’eleganza delle sue soggettive dinamiche, trascina lo spettatore nel campo di battaglia tra fiammate e spari fragorosi, per poi costringerlo – come i suoi uomini – a fare la conta delle vittime e dei superstiti nella quiete nervosa dopo la tempesta. Un’opera straordinaria, I Dannati, e non solo per via della sua doppia accezione narrativa di western revisionista e film di guerra esistenzialista, ma perché poema filmico sulla necessità di essere forti anche se (con)dannati e arrivati a un punto di non ritorno. Perché in fondo, più che dannati, sono condannati gli uomini di Minervini. Condannati all’eterno vagare in tempo di guerra, in attesa di trovare un modo per poter tornare a casa.
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