MILANO – Presentato alla Berlinale, unico film italiano in concorso, ha vinto l’Orso d’Argento per il Miglior Contributo Artistico per la fotografia (meravigliosa) di Hélène Louvart. La domanda d’obbligo quindi adesso è una sola: ma com’è Disco Boy di Giacomo Abbruzzese? Un film potente, potentissimo, figlio del miglior cinema contemporaneo, che mischia le derive digitali di questo storytelling visivo in un calderone di esoterismo, luci al neon, sonorità elettroniche e rimandi alla Nuova Hollywood. Quello di Abbruzzese non è un debutto per tutti e sicuramente una volta al cinema (esce il 9 marzo) dividerà il pubblico e animerà un dibattito. C’è chi lo odierà e chi lo amerà, nessuna via di mezzo, e sempre e comunque per gli stessi motivi: la sua complessità, le sue risoluzioni criptiche, il suo stile derivativo e particolarissimo.
Ma andiamo con ordine: Franz Rogowski è il militare bielorusso Aleksei, un moderno Walter Kurtz in questa versione elettronica di Apocalypse Now. Rogowski è il protagonista assoluto, in fuga da una nazione fascista, salvato da metodi militari poco ortodossi, che si reinventa eroe e risale il Delta del Niger in un viaggio anche (e soprattutto) interiore alla ricerca di un vero scopo, lontano dal suo cuore di tenebra. A fare luce sul suo viaggio ci pensano le soluzioni visive che Abbruzzese adotta, che ai più ricorderanno il cinema di Nicolas Winding Refn (soprattutto nei momenti meditativi e di transizione silenziosa), ma che in realtà sono molto più vicine all’arte contemporanea e digitale: c’è una lotta sul pelo dell’acqua vista attraverso la visione termodinamica che richiede anche un grande sforzo di immedesimazione da parte dello spettatore.
Non è un caso che molta di questa deriva artistica venga poi collegata ai temi più esoterici e tribali di questa corrente, preponderanti anche nella parte centrale del film, che mischia il destino di Aleksei con quelli dei fratelli Jomo e Udoka (Morr Ndiaye e l’artista ivoriana Laëtitia Ky, fantastica), due facce della stessa medaglia: uno cerca il riscatto a partire dalla riconquista della propria territorialità, in lotta col moderno colonialismo; l’altra – più vicina ai sentimenti di Aleksei – è alla ricerca di una rivalsa in un luogo altrove, così da conquistare la propria individualità perché sconfitta da quei contesti che le hanno dato i natali. Questo luogo “altro” è, infine, la pista da ballo: nello specifico quella di un club francese dove Aleksei e Udoka si rincontrano dopo l’estenuante esperienza in Nigeria.
La pista da ballo trascende, diventa metafisica e si fa esperienza spirituale più che carnale. La grande colonna sonora curata da Vitalic accompagna questa unione di destini. La reincarnazione di Jomo in Aleksei sembra essere la soluzione finale: Jomo si trasforma in quel “disco boy” che desiderava diventare, e si riunisce alla sorella; Aleksei diventa una parte di questa nuova persona, espiando le sue colpe. Non c’è bisogno di spiegare quello che succede davanti ai nostri occhi perché sono le immagini e la musica a parlare. Si apre forse così una nuova fase del cinema italiano, finora solo auspicata: quella fatta di intenzioni e della versione più estrema dello show, don’t tell e ci pensa Abbruzzese a guidare questa nuova corrente. E noi? Noi siamo tutti dei disco boy e non vediamo l’ora di continuare a ballare…
- PREVIEW | Disco Boy e l’altra Africa di Abbruzzese
- VIDEO | Il trailer di Disco Boy:
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