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Il lungo addio | Surf, buddismo e quelle mail: quando Dick Dale ci diede lezioni di vita

Un’intervista a Londra, un incontro, poi le mail: il toccante ricordo firmato dall’inviata di Hot Corn

Dick Dale sulla copertina di Checkered Flag. Era l'ottobre del 1963.

LOS ANGELES – «Per conoscere qualcuno devi svuotare completamente te stesso». Da quando ho saputo della morte di Dick Dale questa frase mi rimbomba in testa: quante persone ho conosciuto realmente nella vita? A quante ho davvero permesso di conoscermi? Era stato lo stesso Dick Dale a dirmela e ho sempre pensato contenesse moltitudini. La verità è che nelle tre ore passate con il leggendario chitarrista avrei acquisito una saggezza che mi avrebbe accompagnata per il resto della vita. «Punto primo: non mi piacciono le interviste». Così mi accoglie Dale nell’estate del 2010 non appena lo incontro a Londra, nell’hotel in cui alloggia prima del concerto al Luminaire di Kilburn. Ha miracolosamente acconsentito a un’intervista telefonica, ma quando sente la mia voce qualcosa lo convince a incontrarmi di persona. Più tardi mi avrebbe spiegato che poteva sentire il mio karma, qualsiasi cosa significhi.

Dick Dale sulla copertina di Summer Surf, album del 1964.

Per la prima ora non ho potuto chiedergli nulla. «Il monaco buddista dice che nel momento in cui cominci a parlare, vieni frainteso. Per questo vive nel silenzio. Lo dico sempre a mio figlio: non parlare. Chi parla non conosce». Dick Dale: il Re della chitarra surf, l’uomo che ha alzato il volume degli amplificatori Fender “fino a 11”, me lo ricordo soprattutto come un santone. Nelle mail che sporadicamente ci scambiavamo mi chiamava “grasshopper”, proprio come Master Po nella celebre serie tv Kung Fu con David Carradine, chiamava il suo allievo. Poi chiudeva ogni messaggio con “Keep smiling”.

Dale sorrideva sempre, eppure soffriva da seduto e soffriva in piedi, usava le tecniche di respirazione delle arti marziali per tollerare un dolore che sarebbe stato ingestibile per ogni altro essere umano a causa delle operazioni subite per un cancro ricorrente. Quando si è spento lo scorso 16 marzo aveva in programma una serie di date per tutta America fino alla fine dell’anno; l’avrei visto qui a Los Angeles a maggio. Perché sul palco, senza scaletta e senza mai un piano premeditato, avrebbe sempre dato tutto se stesso, elettrificando il pubblico con un suono di chitarra unico: suonava lo strumento al contrario come i mancini ma anche a corde invertite.

Due dei vinili di Dick Dale.

Dick Dale era un sopravvissuto. «Io vivo per il momento, non vivo per ieri e il domani non esiste» mi aveva detto ricordando che il primo cancro al retto gli era preso a 20 anni. «Mi avevano dato 3 mesi di vita, così prima dell’operazione sono andato in un’isola del Pacifico dove ho conosciuto per la prima volta le arti marziali; ho digiunato per 30 giorni nutrendomi soltanto di the al ginseng e miele. Ed eccomi ancora qui: a breve compirò 73 anni e spacco ancora i culi sul palco». Poi mi spiega di come in inglese la parola più usata sia “io”, del buono e del cattivo ego, di come la stampa lo abbia accusato di essere presuntuoso se parla della sua storia ed è per questo che non ama i giornalisti.

Dick Dale at the Drags, il vinile che pubblicò nel 2012.

Quando spiega di come negli anni ’50 riusciva a suonare nei locali californiani il rock’n’roll con la chitarra, allora considerata “lo strumento del demonio”, mi immagino una scena molto simile a quella di Ritorno al Futuro. Si sarebbe “impomatato” e vestito a puntino, suo padre sarebbe stato all’entrata con una cesta da cravatte da far indossare agli amici surfisti, perché una delle condizioni per esibirsi era che si tenessero toni decorosi. Avrebbero suonato la tradizionale musica della big band americana per quasi tutto il concerto, lui con la tromba, e poi nell’ultimo quarto d’ora avrebbe svisato con la chitarra. «Dicevo: questa è la musica che suono al Rendezvous Ballroom in Balboa» riferendosi al locale preso in affitto dal padre dove riusciva a radunare anche una folla di 4000 persone. A quel punto lo avrebbero fermato con la forza. Ma il messaggio era arrivato.

«Le ragazze diventavano selvagge, il pavimento in legno si muoveva su e giù, mi dicevano che ero il “King of Surf” e così è iniziato tutto». Il suo segreto? Suonava “sull’uno”, per chi s’intende di beat. Per gli altri, basti capire che il suo riferimento assoluto era il batterista Gene Krupa e lui suonava la chitarra con lo stesso approccio con cui Krupa suonava la batteria. «Suonare sull’uno è una cosa da zulu, da nativi, è un suono primordiale. Nei rituali usavano quel ritmo per ipnotizzare o fare l’amore. Così riuscivo a intrattenere nei miei show gente di tutti i tipi, dai bambini di 5 anni ai vecchi di 105».

«I like Dick Dale»: non solo musica, il culto di Dale divenne anche gadget.

Da teenager si era trasferito con i genitori da Boston in California, nell’Orange County, dove ha abbracciato la cultura dei surfisti, passando ogni alba e tramonto dentro l’oceano con la tavola. «Mia madre era originaria della Polonia, poi è andata a scuola in Russia: mi ha insegnato ad arare la terra e abituato ad avere animali intorno tutta la vita». E fu così che Dick Dale si prese la briga di ospitare nella casa californiana decine di specie di animali diversi, per curarli e difenderli da chi voleva cacciarli. «Gorilla, scimmie, leoni, tigri, avevo di tutto, persino i pesci inquinati dal mercurio. Li ho presi che erano malati e curati». Surf, arti marziali, Gene Krupa e animali selvaggi: questo è il cocktail che ha generato il Dick Dale sound.

Con la chitarra avrebbe fatto il rumore del surf che entra dentro il tubo dell’onda ma anche riprodotto i versi degli animali che accudiva a casa. «Una chitarra è composta da due elementi: legno e molecole. Colpisci una nota che viaggia attraverso le molecole e diventa un’onda tsunami che non si ferma… finché si ferma». Se lo chiamano il padre dell’heavy metal è perché ha fatto sanguinare le orecchie degli spettatori creando insieme all’amico Leo Fender il primo “power amplificatore” della storia: 100 watt contro i 10 w che giravano all’epoca. Per alzare il volume, ne aveva letteralmente fritti una marea prima di trovare con Leo Fender («per me era come un padre») la combinazione valvolare giusta. «È stato come passare dalla Golf alla Ferrari». Se gli altri usavano corde con uno spessore (gauge) di 6, 7, 8 o 9, lui le usava da 18, 49 e persino 60. L’effetto combinato di tutti questi elementi è stato esplosivo e il suo impatto decisivo su molti chitarristi, incluso Jimi Hendrix, suo grande fan.

Alcune delle copertine dei molti album di Dale.

È grazie alla versione della canzone tradizionale araba Misirlou di Dick Dale che Quentin Tarantino ha reso epica la scena d’apertura di Pulp Fiction. «Tarantino non è come gli altri registi che prima filmano e poi pensano alla musica: lui parte da una canzone». Poi mi spiega che ha conosciuto il brano originale grazie al padre libanese che lo ha esposto alla musica egiziana e araba sin da piccolo. «Era una canzone d’amore lenta, di quelle che si suonavano per accompagnare le danzatrici di ventre mentre gli infilavano soldi nel reggiseno». Prima di salutarci mi insegna alcune mosse di karate di autodifesa. Al concerto mi dedica una cover di Johnny Cash e dopo lo show mi prende per mano per incontrare i suoi fan. Era sfinito dal dolore ma non ha rifiutato nessun autografo.

Era innamorato perso di Lana, sua terza moglie, sua manager, infermiera. Io non so come abbia fatto ad arrivare a 81 anni data la disastrosa condizione di salute in cui versava nell’ultima decade. Scherzava che un giorno sarebbe morto sul palco «in un’esplosione di parti del corpo». Diceva che se era arrivato fino a lì era perché si era da sempre rifiutato di prendere antidolorifici, di bere alcol e di mangiare carne rossa. «La musica è solo una finestra nella mia vita. Non faccio mai le prove, e dopo gli show non tocco la chitarra, piuttosto vado a costruire qualcosa, oppure rispondo alle mail, lavoro sulla casa, la barca, l’aeroplano». Sì perché era anche un pilota e nella tenuta di Twentynine Palms aveva un aeroporto: il Dick Dale Skyranch.

Dale in California in un’immagine recente.

Se continuava imperterrito a suonare dal vivo era perché non poteva permettersi di smettere di guadagnare a cause delle ingenti spese mediche per le borse per la colostomia che voleva cambiare più volte al giorno e non una a settimana, come consigliato dai medici. Parlava pubblicamente di questi problemi perché voleva dare forza e supporto a chi soffriva come lui e mandare il messaggio che nella vita si può superare tutto: «Provare significa conoscere. Conoscere significa capire. Capire significa tollerare. Tollerare significa trovare pace». Riposa adesso, my rock’n’roll guru, che il viaggio ti sia lieve e ogni sofferenza svanita. Il re è morto, lunga vita al re! Keep smiling.

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