ROMA – Nel novembre del 2021 ventisei tesori reali del Regno del Dahomey – ovvero un ex regno africano situato al Sud della Repubblica del Benin e fondato nel XVII Secolo dal Re Houegbadja – stanno incredibilmente per lasciare Parigi per tornare nel loro Paese d’origine. Insieme a migliaia di altri manufatti, questi tesori furono infatti saccheggiati dalle truppe coloniali francesi nel lontano 1892. Ma c’è un problema: quale atteggiamento adottare di fronte al ritorno di questi antenati in un Paese che ha dovuto andare avanti in loro assenza? Il dibattito infuria tra gli studenti dell’Università di Abomey-Calavi e proprio da qui parte Dahomey, il nuovo film di Mati Diop – regista di Atlantique, che vi avevamo raccontato qui – presentato in concorso alla 74esima edizione della Berlinale dove ha vinto l’Orso d’Oro e dal 7 novembre finalmente al cinema con Lucky Red e MUBI.
Un progetto personalissimo per la regista che dopo il Grand Prix Speciale a Cannes col suo lungometraggio d’esordio, Atlantique – che trovate in streaming su MUBI – ha cercato di tornare alle origini del suo cinema. Lei, classe 1982, parigina, figlia di padre senegalese e madre francese, allieva dell’amica Claire Denis, questa volta è andata alle radici africane del suo mondo: «Diciamo che Atlantique trasponeva la gamma delle mie influenze culturali. Con quel film ho cercato di rimanere il più vicino possibile al mio linguaggio artistico giocando consapevolmente con una narrazione più classica che definirei un racconto gotico. Dopo Atlantique avevo però bisogno di rivivere un processo libero dalle convenzioni sul formato. Con Dahomey sono così tornata ad un processo di scrittura e di ripresa più libero, più vicino ai miei film precedenti. È un documentario fantasy ma allo stesso tempo un manifesto politico e un film d’arte. Puntavo a quello stesso rigore estetico».
Ma da dove arriva la storia? Le origini creative di Dahomey vanno ricercate nel periodo della pandemia da COVID-19 con i tempi dilatati del lockdown e il mondo bloccato che hanno fatto il resto, portando all’attenzione della Diop un evento senza precedenti: «Sì, la chiusura imposta dalla pandemia mi ha fatto dubitare del significato che volevo continuare a dare al mio lavoro di regista e del suo impatto politico», ha spiegato la regista. «Un anno dopo, quando ho saputo che ventisei tesori reali del Dahomey sarebbero stati restituiti al Benin dalla Francia, ho interrotto quello che stavo facendo e ho deciso di farci un film. Restituzione, Vendetta, Ritorno e Riparazione: tutto unito nella mia testa. Per quanto sconcertante possa essere stato per me l’annuncio di Macron a Ouagadougou, il progetto di rimpatrio del patrimonio culturale africano è veramente stato uno shock…».
Il motivo? La ragione stessa del perché il documentario ha poi visto la luce: «Mi sono resa conto con tristezza che non avrei mai immaginato la possibilità che qualcosa del genere accadesse nella mia vita. Forse proprio per rassegnazione. Non avevo mai immaginato come potesse essere realmente la restituzione e, mentre cercavo di visualizzarla, il film si stava già cristallizzando nella mia mente». Così quel film è diventato Dahomey e ora – dopo il trampolino della Berlinale – lo vedranno in molte persone iniziando anche una profonda riflessione sul post-colonialismo (mai veramente affrontato), anche se – cinematograficamente parlando – la nostra impressione è che l’ascesa di Mati Diop sia appena cominciata…
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