ROMA – Nella sua quarta avventura, Bridget Jones (Renée Zellweger) è di nuovo sola, rimasta vedova quattro anni prima quando Mark (Colin Firth) è stato ucciso in un attentato in Sudan. Ora è una madre single, impegnata a crescere Billy (Casper Knopf), di nove anni, e Mabel (Mila Jankovic), di quattro, in uno stato di limbo emotivo e affrontando la vita con l’aiuto dei suoi amici, dell’insegnante di scienze dei suoi figli, il Signor Wallaker (Chiwetel Ejiofor) e della sua ginecologa, la caustica (ed esilarante) Dottoressa Rawlings (Emma Thompson) e persino del suo ex amante e grande amico Daniel Cleaver (Hugh Grant) fortunatamente sano, salvo e sempre irriverente dopo il ritrovamento nel finale del film precedente.

Bridget torna al suo vecchio lavoro di produttrice televisiva e prova persino a usare Tinder, dove viene corteggiata dal più giovane Roxster (Leo Woodall). Ritrova un equilibrio e una routine stabile, Bridget, tra famiglia, amici, lavoro e amore, ma le sorprese sono dietro l’angolo. Renée Zellweger torna a interpretare il ruolo che l’ha resa una delle protagoniste più universalmente amate della storia della rom-com a nove anni dal terzo capitolo (Bridget Jones’s Baby) con Bridget Jones: Un amore di ragazzo di Michael Morris. Il film, ispirato all’omonimo romanzo di Helen Fielding del 2013 (edito in Italia da Rizzoli) arriverà al cinema con Universal Pictures in anteprima il 13 febbraio per poi approdare in via definitiva in sala a partire dal 27 febbraio.

Ed è un gradito – e sorprendente – ritorno quello di Bridget Jones. Non tanto in termini produttivi perché gli incassi world-wide dei capitoli precedenti – tutti compresi tra i 211 milioni di dollari del terzo capitolo e i 281 del primo (il secondo film ne ha incassati 262!) – parlano chiaro pur nella loro curva discendente. Piuttosto sono i nove anni di distanza tra il terzo e proprio Bridget Jones: Un amore di ragazzo a darci uno spunto di riflessione, specie in un’epoca inflazionata di sequel/revival di saghe storiche. A mancare, forse, come spesso succede – nel cinema come nella vita – era la comunione d’intenti, o anche il giusto profilo registico in grado dare quell’impronta necessaria a rendere magia una sceneggiatura su carta.

Eppure perfettamente in linea con la controparte letteraria, perché tra il secondo e il terzo romanzo c’è un abisso temporale di quattordici anni tra il 1999 di Che pasticcio Bridget Jones e il 2013 di Bridget Jones: Un amore di ragazzo. Un’assenza che Fielding commentò in un’intervista dell’epoca con queste parole: «Ho perso la mia voce con Bridget per molto tempo dopo l’inaspettato successo quando è uscito per la prima volta. È stato molto facile scrivere ed essere onesti, poi sono diventata tutta insicura. Poi ho scoperto che avevo nuove cose che volevo dire. Cose che non esistevano quando ho scritto l’ultima volta, come e-mail e messaggi. Il modo in cui la vita è vissuta su Twitter» diventato poi Tinder nella trasposizione cinematografica dodici anni dopo.

La voce ritrovata, nel mezzo cinematografico, è qui quella di Morris che i cinefili di ferro ricorderanno per quell’assoluto gioiello di dolore, speranza e bisogno d’amare di To Leslie che non citiamo qui a caso. Con Bridget Jones: Un amore di ragazzo il lavoro precedente di Morris condivide proprio la cura emotiva del momento. Infatti, proprio per questo vi diciamo: aspettatevi qualcosa di diverso in questo quarto capitolo. Perché se gli spunti comici sono rimasti invariati tra l’umorismo naturale e spontaneo di una Zellweger totalmente in mimesi con l’aura caratteriale di Bridget in un impianto che alterna, con semplicità e armonia, slapstick a equivoci esilaranti, è quando la narrazione arriva nel terreno più malinconico che vede il suo cuore sentimentale dischiudersi del tutto.

È, infatti, un film che racconta la vita, Bridget Jones: Un amore di ragazzo, del voltare pagina e ricominciare un nuovo capitolo del proprio diario, di amare e di avere il coraggio di riprovare a sentirsi fragili ed emozionati per una nuova prima volta. «Non basta sopravvivere, devi vivere» dice a un certo punto una delle più forti linee dialogiche del racconto che della narrazione di Morris è forse il nodo gordiano, e che a suo modo va a rievocare una delle citazioni più celebri dell’immortale Guerra e Pace di Lev Tolstoj: «Per vivere con onore bisogna struggersi, turbarsi, battersi, sbagliare, ricominciare da capo e buttar via tutto, e di nuovo ricominciare a lottare e perdere eternamente. La calma è una vigliaccheria dell’anima».

Bridget ci prova, ci riprova, ricomincia, sbaglia e subisce gli sbagli altrui – tiene botta – costruisce e ricostruisce un equilibrio vitale precario e traballante, ma che sta comunque in piedi perché integra, pura, e pienamente consapevole di sé stessa. Che può guardare a un futuro luminoso e nuovo, diverso, pur restando legata al proprio passato d’amore che resta, sottopelle, nel ricordo, per manifestarsi all’occorrenza tra lacrime e affetto. Ed è proprio in questo che fa mille volte centro il Bridget Jones: Un amore di ragazzo di Morris, perché il malinconico secondo tempo di Bridget Jones è un film talmente pieno di emozione, speranza e di vita che è veramente difficile non volergli bene.
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