FIRENZE – Il cinema come la vita è ricco di promesse e di false partenze, di ritiri e di ritorni. Ma il regista ungherese Béla Tarr, una volta dichiarato di voler abbandonare il cinema, non è più tornato indietro. Scappato dall’Ungheria di Orban a Sarajevo, dove ha aperto una scuola per giovani cineasti provenienti da tutto il mondo, ha iniziato a lavorare con l’arte visiva, mostre, installazioni e progetti multimediali. Il perché di questa scelta sta nella radicalità della sua filmografia: film in bianco e nero, mastodontici, nichilisti, poetici, opere che lo hanno reso un regista di culto ma che lo hanno relegato ai margini della cinematografia. In Italia i suoi film sono stati visti solo su Fuori orario.
Dopo Perdizione del 1987, ipnotico dramma d’amore e di desiderio di fama che mette a nudo la meschinità dell’uomo all’interno di un bar senza tempo e senza spazio, è subito odiato dai suoi concittadini: i politici dissero a Béla Tarr che non avrebbe potuto più fare film in Ungheria. Questo è stato per lui la conferma pubblica di un suo sentimento personale: essere un outsider, qualcuno fuori dal sistema. Per il film di oltre sette ore Satantango del 1994, storia del collasso di una fattoria collettiva ai tempi della fine del comunismo, dal romanzo di Laszlo Krasznahorkai, il regista dormì per due anni in posti orribili, mangiò malissimo, affinché si compisse un’osmosi con la realtà che voleva filmare.
La sua ultima opera? Il cavallo di Torino del 2011, vincitore dell’Orso d’Argento, gran premio della giuria al Festival internazionale del cinema di Berlino, sembra denunciare la fine di ogni speranza per un’umanità avida e meschina, ma forse nella libertà di descriverla così come essa appare al regista consiste un’ultima e catartica speranza. Quella dell’artista che cerca il vero o, almeno, il suo vero, senza compromessi e falsità. Per questi e gli altri suoi film Béla Tarr non ha usato sceneggiature, ha girato in bianco e nero lunghissimi piani sequenza, così lontani dal montaggio frenetico contemporaneo ma così espressivi e profondi, frutto di quello che secondo Truffaut definisce un regista vero e onesto, l’avere un’idea di vita e quindi un’idea di cinema.
Ecco che nella Factory di Sarajevo non ha voluto educare i suoi giovani cineasti al rispetto delle regole del cinema e della vita, ma alla consapevolezza che nel mondo bisona muoversi in libertà. Il cinema di Béla Tarr è aderente alla realtà: questo è ciò che ha voluto trasmettere, e forse il suo ritiro dal cinema è la conferma più evidente dell’esercizio della sua libertà. E, senza aver più nulla da dire attraverso la regia cinematografica ha preferito coltivare e aiutare l’ispirazione dei suoi giovani allievi. Ah, dimenticavamo: il regista è stato ospite a settembre al Toko Film Fest, in provincia di Salerno, per raccontare al pubblico uno dei suoi capolavori, Le Armonie di Werckmeister del 2000. Insomma, alla fine, lo abbiamo trovato ed è proprio qui, tra noi.
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