ROMA – Lo aspettavamo da trentasei anni precisi e ora Beetlejuice è tornato! Eccolo qui, dopo un’inaspettata tragedia familiare, con tre generazioni della famiglia Deetz a casa a Winter River. Ancora perseguitata dallo Spiritello Porcello, la vita di Lydia – ora indagatrice dell’occulto con uno show televisivo – viene sconvolta quando la figlia adolescente e ribelle, Astrid, scopre il modellino della città in soffitta e il portale per l’Aldilà viene aperto. Con i problemi che stanno nascendo in entrambi i regni, è solo questione di tempo prima che qualcuno pronunci tre volte il nome che non deve mai essere pronunciato e il demone dispettoso torni nuovamente per scatenare il caos. Beetlejuice Beetlejuice, un film di Tim Burton con protagonisti Michael Keaton, Winona Ryder, Jenna Ortega, Justin Theroux e Catherine O’Hara, ora al cinema con Warner Bros. Pictures.
Dicevamo, trentasei anni. Forse tra i film più attesi, chiacchierati e sognati di sempre Beetlejuice Beetlejuice, ed è lo stesso Burton a dirlo: «L’originale Beetlejuice è un film molto speciale per me. E l’idea di un sequel è venuta fuori molte volte: giravano anche vari script, ma ho sempre pensato che se dovevamo farlo dovevamo farlo bene e con l’approvazione di Michael, Catherine e Winona. Se non fossero stati tutti d’accordo non l’avrei fatto». Non ci sarebbe mai stato il sequel senza che uno dei protagonisti del cult del 1988 non vi fosse tornato. Di sicuro non senza Keaton che negli anni ha dichiarato più volte come fosse questo l’unico sequel a cui avrebbe voluto prendere parte. A condizione però che lo Spiritello Porcello non fosse imbrigliato nel politically correct (spoiler: non lo è mai!).
La stessa Ryder ha messo in chiaro ai Fratelli Duffer che avrebbe dato priorità al film nel caso di conflitto di lavorazione con Stranger Things 5. Non ultimo proprio Burton che con Beetlejuice Beetlejuice ha deciso di tornare dietro la macchina da presa cinematografica dopo che l’insuccesso di critica-e-pubblico di Dumbo e la fredda accoglienza di Miss Peregrine ne hanno tristemente minato l’entusiasmo. Serviva l’ispirazione in buona sostanza. Per quella chiedere alla regia delle prime quattro puntate della serie Netflix Mercoledì e l’incontro con la giovane e magnetica Jenna Ortega, qui nei panni della figlia di Lydia, Astrid, e autentico collante di tutte le componenti. Prima di allora, però, ce n’è voluto prima di arrivare a parlare in termini effettivi di un sequel di Beetlejuice. Eppure, lì per lì, c’era davvero molto entusiasmo tra gli executives della Geffen Film Company.
Specie considerando i 75 milioni di dollari d’incasso world-wide a fronte di un budget di 15 milioni di dollari tondi tondi. Nel 1990 furono commissionati due script per il sequel. In uno, dal titolo Beetlejuice In Love a firma Warren Skaaren (già autore di alcune pesanti riscritture dello script del primo) lo Spiritello Porcello avrebbe incontrato un personaggio inedito, Leo, un cantante d’opera lirica intento a chiedere alla sua ragazza, Julia, di sposarlo sulla Torre Eiffel. Per via di un incidente, Leo sarebbe precipitato dal celebre monumento. Beetlejuice lo avrebbe poi incontrato a Netherworld, nell’Aldilà, per poi rincorrere Julia nel mondo dei vivi. Il progetto non fu mai ampliato nonostante il benestare di Burton. Skaaren, infatti, morì poco dopo la scrittura del primo draft, ma l’assenza dei Deetz avrebbe pesato e non poco sulla sua effettiva realizzazione.
Quindi Jonathan Gems che firmò il chiacchieratissimo Beetlejuice Goes Hawaiian sulla base di un’allucinazione burtoniana: «Tim pensava che sarebbe stato divertente abbinare lo sfondo di surf di un film sulla spiaggia con una sorta di espressionismo tedesco, perché sono totalmente sbagliati insieme». La storia avrebbe visto i Deetz trasferirsi alle Hawaii dove Charles avrebbe sviluppato un resort edificato sul luogo di sepoltura di un antico Kahuna hawaiano. Invocato, Beetlejuice avrebbe provocato più confusione che altro, ma immaginate la scena dello Spiritello Porcello in tavola da surf che vince una gara truccandola con la magia. Sia la Ryder che Keaton accolsero bene l’idea e accettarono di tornare. La differenza, in questo caso, la fece il contemporaneo inizio della lavorazione di Batman – Il Ritorno per cui Burton contattò lo sceneggiatore Daniel Waters (Heathers) per le riscritture di entrambi gli script.
Nonostante l’aggiunta di un nuovo draft a firma Pamela Norris, Beetlejuice Goes Hawaiian piombò in development-hell per più di un paio d’anni. Precisamente fino al 1996 quando la Warner Bros contattò Kevin Smith dopo che rimase impressionata dal suo lavoro di scrittura in In cerca di Amy. Incredibilmente, però, il regista di Clerks disse di no in favore dell’altrettanto mai realizzato Superman Lives e per una ragione ben precisa: «Scusate ma non si era già detto tutto quello che c’era da dire con il primo Beetlejuice? C’è davvero bisogno di un sequel tropicale?». E tutto finì così. Gems stesso non riuscì minimamente ad immaginare un possibile sviluppo altro di quell’idea: «Lo script di Beetlejuice Goes Hawaiian è ancora di proprietà della Geffen e sinceramente non credo sarà mai realizzato, in più Winona è troppo grande ormai, servirebbe il recasting».
Burton stesso immaginò altre idee non dissimili in termini di concept: «Abbiamo parlato di molte cose diverse. Era all’inizio quando stavamo pensando a Beetlejuice and the Haunted Mansion, Beetlejuice Goes West, o a quello che fosse. Sono venute fuori un sacco di cose, ma tutti quegli scenari iniziali ambientati alle Hawaii, nel selvaggio West o a Parigi, in Francia, sono stati tutti scartati» e per un motivo semplice: perché non è affatto Beetlejuice il cuore della saga nonostante sia lui a darvi il titolo. Non a caso, nel sequel la presenza dell’agente scenico di Keaton è davvero poco meno di quella di un deuteragonista. Solo che in quei venti minuti ruba la scena a tutti e diventa l’effige della rediviva anima giocosa burtoniana tra apparizioni splatter, una backstory convincente e gag di ogni genere.
La sola scena in cui Beetlejuice imbraccia la chitarra per dedicare a Lydia, il suo indomito sogno d’amore, Right Here Waiting di Richard Marx, è quando di più folle, spiazzante e divertente ci si possa attendere da un genio come Burton. Ed è questo lo spirito filmico che si respira lungo tutto Beetlejuice Beetlejuice, quello di un ritorno alle origini che suona come nostalgico saluto di commiato a quel primo cinema burtoniano e le sue inimitabili estetiche fatto di orrore, più malinconia che perfidia e amore familiare, scenografie espressioniste e suggestive animazioni in effetti pratici. Ma non è lo Spiritello Porcello il depositario dell’anima del sequel. Per quella bisogna rivolgersi ai Deetz e a Lydia in particolare, parola di Burton: «Mi sono sempre identificato con Lydia, quindi ho iniziato a pensare a come si sarebbe svolta la sua vita: passare dall’essere una tosta ragazzina goth a un’adulta».
Il che ci porta alla base tematica di Beetlejuice Beetlejuice, l’invecchiamento, o per meglio dire, il crescere: «Cosa le è successo in trentacinque anni? Cosa succede a tutti noi? A volte, invecchiando, perdiamo un po’ parte di noi, prendiamo una certa strada, facciamo un certo viaggio, abbiamo varie relazioni, e tutto questo ci cambia. Mi identificavo con Lydia allora e mi identifico con lei adesso». Non è un caso se il ritmo narrativo del sequel appare diametralmente opposto al predecessore. La velocità e compattezza da fiabesco Home Invasion del primo Beetlejuice lascia qui il posto a un sequel dal ritmo cadenzato, dosato, pieno di lungaggini per certi versi. Romanticamente qui a Hot Corn ci piace credere che Burton – tornato per un’ultima volta nel suo giocoso regno gotico – voglia semplicemente prendersela comoda, facendoci gustare ogni momento e ogni inquadratura.
In altri termini, ma come si può non voler bene a un film in cui per accedere nell’Aldilà si sale a bordo di un treno chiamato Soul Train, esattamente come l’omonima trasmissione musicale di disco dance anni Settanta? E ha perfettamente senso se consideriamo che nell’originale Beetlejuice erano le sonorità di Harry Belafonte a far da padrone (Jump in the Line, Day-O). Si è davvero parlato per anni di come dare forma filmica a Beetlejuice Beetlejuice. Tanti sceneggiatori si sono avvicendati, ma serviva veramente qualcosa di straordinario perché il sequel potesse prendere vita. Serviva la Ortega e con lei la presa di coscienza che Lydia dovesse diventare adulta e riscoprire il mondo attraverso gli occhi di sua figlia Astrid. Un miracolo insomma, e a volte perché un film possa vedere la luce serve solo quello.
- HOT CORN TV | Con Jenna Ortega dietro le quinte
- VIDEO | Qui per il trailer del film:
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