MILANO – Il Sordi opportunista, furbo, meschino. Il Sordi pigro, fregnone. E vigliacco. Sempre. Poi il Sordi calcolatore, egoista. Il Sordi italiano medio che, se può far finta di niente, sempre e comunque, va bene così. Conosciamo tutto dei personaggi interpretati da Alberto Sordi, dal primario Guido Tersilli all’urlatore Nando Mericoni, passando per il cretinetti de Il vedovo e per il piccolo imprenditore ambizioso de Il boom. Eppure, per una volta, potremmo ricordare altro, perché Alberto Sordi è stato anche altro. Non spesso, certo, ma lo è stato, vedi il viaggio di Tutti a casa o il finale de La grande guerra. Il suo capolavoro però – almeno per chi scrive – rimane Una vita difficile di Dino Risi, un film che contiene un personaggio, Silvio Magnozzi, che è l’opposto di tutto ciò che Sordi ha impersonificato in carriera.
Ma chi è Magnozzi Silvio, romano, ufficiale di complemento? Partigiano e stampatore di un giornale clandestino (La scintilla), studente di architettura prima della guerra, poi aspirante giornalista, Magnozzi attraversa vent’anni di storia italiana e mezzo Paese, da un mulino di Dongo, sul lago di Como, alle trattorie di Roma passando per i locali notturni della Versilia. Dalla miseria al boom, affiancato da una moglie, Elena, interpretata da Lea Massari (che un anno prima aveva girato L’avventura con Antonioni) che cerca di stargli vicino quanto può. Come può. «Ma non credere che sia difficile fare quattrini come fa questa gentaglia, Elena», le spiega a un certo punto lui. «Credi sia più difficile scrivere un brutto romanzo o vendere elettrodomestici? O vivere di sfruttamento come fa questa gente del Nord?».
La coerenza del povero Magnozzi verrà piegata, anno dopo anno, umiliazione dopo umiliazione. Una delle scene centrali del film – scritto interamente da Rodolfo Sonego, che già aveva lavorato a molti film di Sordi e un anno prima aveva firmato Il vigile – è il pranzo girato al Santa Monica di Viareggio tra Magnozzi e il figlio, che ormai vive da solo con la madre. «Paolino, ma la mamma ti parla mai di me? E che dice?». «Che sei sfortunato». «No, non è vero che sono sfortunato. La verità è che non ho mai cercato la fortuna». Sonego – che inserì molti elementi autobiografici – ribalta il prototipo dell’italiano medio incarnato da Sordi e costruisce, modellandolo su di lui quasi come un sarto, un personaggio onesto e coerente a cui l’Italia del boom e dell’ipocrisia democristiana vorrebbe far ingoiare gli ideali a colpi di silenzi e obbedienza.
Ci sarebbe ancora molto da dire, dalla tavolata a casa dei monarchici la sera del 2 giugno 1946 agli sputi alle macchine dei turisti a Viareggio ( «Ma che venite a fare in Italia? Non c’è niente da vedere, è tutto uno schifo») fino all’indimenticabile finale, simbolo della dignità di un uomo che non può mai avere prezzo. L’aspetto paradossale? Che uno dei capolavori del cinema italiano del Novecento (nonché tra i preferiti dallo stesso Sordi) sia tanto difficile da trovare in streaming. Se potete, cercatelo e riguardatevelo: ci troverete dentro un piccolo grande eroe italiano, un idealista che, nonostante abbia ormai più sessant’anni, è invecchiato benissimo. Sì, ce lo meritiamo Alberto Sordi.
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