ROMA – C’è qualcosa di veramente rinfrescante – e forse quasi commovente – nell’idea che un film possa e riesca ancora parlare allo spettatore con sincerità, senza filtri e senza secondi fini, siano commerciali o autoriali. Ecco, lontano dagli ampollosi artifici tecnico retorici e dalle pellicole in superficie e fatte in replica per assecondare le mode, The Legend of Ochi, debutto al lungometraggio di Isaiah Saxon e ora al cinema, è una rara gemma che riesce a ridare senso alla parola fiaba nel senso più alto del termine. Un racconto d’avventura, sì, ma che sotto la superficie si rivela essere molto di più, minuto dopo minuto, diventando anche un esercizio di empatia, di visione e – soprattutto – di ascolto dell’altro e degli altri.

Ambientato in un mondo che sembra uscito da un sogno condiviso tra l’estetica di Miyazaki e le favole dei fratelli Grimm, il film segue Yuri, una giovane ragazza cresciuta tra i boschi dell’immaginaria isola di Carpathia, dove le regole sono semplici: non uscire dopo il tramonto, e soprattutto temere gli Ochi. Ma Saxon ci chiede da subito una cosa molto chiara: di sospendere il giudizio, di lasciare che la paura iniziale si trasformi in incanto e di seguire, appunto, Yuri, adolescente introversa e affamata di verità, interpretata straordinariamente da Helena Zengel (chi la ricorda a fianco di Tom Hanks in Notizie dal mondo?). Ed è con lei, e con il rapporto tra quest’ultima e il piccolo Ochi – cucciolo misterioso e temuto, che sembra un po’ uscito da Gremlins di Joe Dante – che The Legend of Ochi trova la sua più vibrante ragione d’essere.

Saxon, regista con un background nel videoclip (che emerge in ogni fotogramma, ancor prima che nel montaggio), costruisce un universo coerente, credibile, e persino (questo il risultato più alto) lontano da qualsiasi didascalismo. Lo fa con una cura maniacale per l’artigianato visivo: painting, animatronics, burattini e animazione digitale si fondono in un amalgama che sa di amore per il cinema con un grande talento nell’attingere all’immaginario del cinema fantastico senza mai caderne prigioniero. Si respira l’eco profonda di Steven Spielberg e di film come E.T., con quella stessa idea di contatto tra mondi diversi che nasce dal bisogno, non dall’eroismo. E poi si ritrova l’incanto primordiale de La storia infinita e il senso del pericolo filtrato dagli occhi dell’infanzia, ma ci sono momenti che evocano anche la fisicità sensoriale di Avatar, senza l’ingombro dell’eccesso digitale. Saxon guarda ai grandi, ma non li ricalca: li osserva, li ascolta, li rielabora.

C’è altro perché The Legend of Ochi possa definirsi un film riuscito ed è la capacità di sapersi prendere il proprio tempo: nei silenzi, nei dialoghi misurati, nella musica straordinaria di David Longstreth che accarezza, che ci fa tornare ad un cinema fantastico di inizio secolo. Non fuori moda, ma anzi in controtendenza. Saxon non cerca la perfezione levigata, punta alla verità emotiva, anche se fragile, anche se imperfetta. La creatura al centro del racconto – l’Ochi – è tenera e disarmante, mai ridotta a mascotte (altro risultato non scontato). È in questo che il film funziona, non solo come racconto d’avventura, ma come gesto politico in miniatura: un invito alla comprensione, al dialogo, alla tenerezza. Un film che non vuole mai essere perfetto, un racconto fiabesco che scuote, ma coccola. E che merita anche di essere coccolato. Assolutamente da vedere.
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