ROMA – Sembra quasi impossibile che nello stesso anno Ridley Scott abbia diretto The Last Duel e House of Gucci (lo trovate su CHILI). Un dramma storico il primo, un crime drama il secondo. Eppure se ci si sofferma a riflettere con più attenzione, tralasciando ambientazioni e registri, appare chiaro come entrambi i film altro non siamo che una riflessione sul potere e il possesso. Da un lato la storia tripartita in cui lo stupro denunciato da Marguerite de Carrouges (Jodie Comer) diventa la lente attraverso cui guardare a una società basata sul feudo e in cui la donna era un oggetto da possedere e mostrare, dall’altro la parabola di avidità di una donna e una famiglia accecati da denaro, lusso e status sociale.

Poco attento ad una ricostruzione temporale fedele dei fatti, House of Gucci è l’adattamento del libro di Sara Gay Forden, House of Gucci. Una storia vera di moda, avidità, crimine, basato sulla sceneggiatura di Becky Johnston e Roberto Bentivegna che, a quatto mani, raccontano – con più di qualche licenza – degli eventi che hanno portato, la mattina del 27 marzo 1995, all’uccisione di Maurizio Gucci (Adam Driver) a Milano. Mandante dell’omicidio l’ex moglie Patrizia Reggiani interpretata da una perfetta Lady Gaga (tralasciando l’accento più moscovita che italiano della versione originale).

Ridley Scott realizza un film eccessivo che guarda al camp con autoironia mentre mette in scena una farsa grottesca dai contorni volutamente e squisitamente kitsch premendo sul pedale dell’esagerazione (ne è un esempio il personaggio di Paolo Gucci, una sorta di caricatura fumettistica interpretata da Jared Leto). Diviso tra Milano, Roma, New York e le montagne innevate della Svizzera, il film – fortemente osteggiato dalla famiglia Gucci che minaccia azioni legali – è il ritratto di una famiglia divisa tra passato e presente, tradizione e innovazione, musei e centri commerciali, eredità e apertura al nuovo.

Un film in cui l’abbondanza, delle finanze Gucci e delle ambizioni personali dei personaggi, si traduce anche in un’abbondanza visiva fatta di decine di look, ambientazioni, parrucche, accessori, canzoni (in alcuni passaggi usate in modo didascalico). Il risultato sono oltre due ore e mezza di un melodramma pop all’ennesima potenza in cui assistiamo all’ascesa, caduta e risalita di un brand sullo sfondo di una guerra familiare fatta di tradimenti e colpi alle spalle. Su tutti svettano la Patrizia di Lady Gaga che si mangia la scena ed è perfettamente e naturalmente intonata al registro del film e l’Aldo Gucci di un sempre gigantesco Al Pacino che ha l’autoironia necessaria per divertire e divertirsi.
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