ROMA – Se c’è una cosa che fa davvero male, è la memoria di un tempo trapassato e sbiadito. Quando tutto era più bello e quanto tutto era più semplice. Come in quei pomeriggi di inizio Duemila, sornioni e lenti. L’estate era appena arrivata e ci si sentiva imbattibili. Il vecchio 3310 che al solo squillo faceva ballare il cuore. I video di Mtv in sottofondo, tra Ben Harper e gli Zero Assoluto. E quell’appuntamento imperdibile su Italia1, alle 15 in punto, quasi sacrale, da custodire sulle VHS da 180 minuti, pronte nel videoregistratore. Eravamo imbambolati, leggeri e totalmente ignari. Ignari che vent’anni dopo sarebbe arrivato lo streaming del tutto e del subito. Ignari che ogni attesa si paga cara, e la si sconta più del dovuto. Ignari che quella sigla, cantata e storpiata a mo’ di filastrocca (scusaci Paula Cole), ci avrebbe cambiato la vita un poco alla volta. “Anouonauei”, e giù a sognare. Bacio dopo bacio, lacrima dopo lacrima. Perché è difficile (e forse anche doloroso) spiegare alle nuove generazioni cosa sia stato “per noi” Dawson’s Creek.
Sei stagioni, un finale perfetto, 128 episodi e quasi novanta ore di tormenti e di sorrisi, di scoperte e di crescita, con il pacchetto completo arrivato su Netflix. E ancora, un microcosmo chiamato Capeside, Massachusetts (ma che in realtà erano Wilmington e Durham nel North Carolina) e una colonna sonora masterizzata da ascoltare e riascoltare sul walkman della Sony, quello su cui la tua compagna di banco ci aveva scritto “TVB” con l’uniposca nero, prima che si scolorisse insieme al suo volto. E poi loro, soprattutto loro: Joey e Dawson, Pacey e Jen, Jack, Andie, Audrey. Il centro di tutto, l’ispirazione e il tormento, gli amici che avremmo voluto avere, le relazioni che avremmo voluto vivere e che, ostinatamente, ci siamo prefissati di inseguire. Tutto vano, tutto utopistico, certo, ma che tripudio di sogni, di speranze, di condivisione. Loro, veri protagonisti rivoluzionari di un immaginario che avrebbe riscritto le regole del teen drama contemporaneo. Ma, soprattutto, coloro che avrebbero riscritto l’educazione sentimentale e sociale di tutti quei nati tra la fine degli anni Ottanta e l’inizio dei Novanta.
Grazie all’intuizione geniale del produttore e dello sceneggiatore Kevin Williamson che per il protagonista, Dawson Leery, prese ispirazione direttamente da sé stesso: la passione per il cinema, i poster in cameretta, l’amore platonico per quell’amica che abitava più avanti, sulle rive del fiume. In mezzo, quei dualismi che ancora oggi creano divisioni: meglio Dawson, il bravo ragazzo e il figlio perfetto, o meglio Pacey, lo scapestrato dal cuore d’oro? Meglio Joey, l’idealista un po’ saccente e romantica, o meglio Jen, la ragazza di città diventata donna troppo presto? Crediamo che non ci sia una risposta. Tutti e quattro sono (im)perfetti così. Sono la causa e l’effetto di un modo di vivere, di pensare, di sbagliare. Perché, se c’è una cosa che Dawson’s Creek ci ha insegnato è l’importanza dello sbaglio. La perfezione, semplicemente, non esiste. L’esperienza, le cadute e le risalite sono il fulcro su cui girava la storia della serie e, di conseguenza, la storia nostra.
Potremmo dirgli grazie per quei moneti, potremmo maledirlo per averci illuso. Ma la verità è che Dawson’s Creek stava svolgendo l’arduo compito di educarci, spiegandoci il sesso e l’amore. Provando a farci capire che l’amicizia è essenziale e che la vera famiglia è quella che scegliamo di crearci. Al fianco di anime affini capaci di condividere gioie e dolori, spingendoci a perseguire ogni nostro sogno. Che sia un viaggio in barca a vela o una telefonata di Steve Spielberg. Ci ha mostrato la via, ci ha mostrato i lati più belli e i lati più brutti di noi stessi. Senza vergogna e senza timore, davanti a quegli amici un po’ fuori moda e un po’ fuori tempo, eravamo finalmente noi stessi. La fotografia esatta della purezza e dei sentimenti folli, vissuti nel massimo tripudio dei sedici anni. Liberi di poter scegliere chi essere. Liberi dai preconcetti e liberi dalle apparenze. Eravamo belli senza sapere di esserlo, specchiandoci in una schermo televisivo, tentando di scoprire quale strada percorrere.
Nessun altro show teen ha avuto lo stesso impatto di Dawson’s Creek. Non c’è Beverly Hills che tenga, figuriamoci The O.C. o Gossip Girl. Mere copie di un prodotto che ha scritto una pagina indelebile del piccolo schermo. Melenso, sì, ma mai banale. Semplice ma mai stereotipato. Era – ed è – lo specchio di una generazione aggrappata agli idoli, invocati e copiati nei gesti e nelle parole, sperando di salvarsi da un baratro annunciato e, dopo pochi anni, puntualmente arrivato. Eravamo noi i ragazzi di Capeside, eravamo noi quelli che tra i compiti di scuola e il cinema il sabato sera provavano ad immaginare come sarebbe stato il loro posto nel mondo. Il lascito, oggi, è enorme. Forse più di quanto ci saremo aspettati, mentre perdevamo gli amori e le amicizie sotto la montagna del tempo che non si ferma. Mai. Nemmeno se lo registri su una VHS, che poi hai finito per buttare insieme a quei ricordi di vita che continuano a tenerti sveglio la notte, sperando che tutto torni com’era, che quella ragazza dagli occhi castani entri dalla finestra lasciata aperta, per ricominciare da capo, per sbagliare e per amare ancora. Quanta paura, quanta meraviglia.
- QuizCorn: quale personaggio sei?
E su YouTube la playlist con la mitica soundtrack:
Lascia un Commento