MILANO – Agnès Varda è quel nome che non può mancare nella mente di ogni cinefilo sensibile al tocco francese. Approdata per caso nel mondo del cinema è l’unica cineasta donna ad essere ricondotta alla poetica della Nouvelle Vague, nonostante abbia sempre rivendicato una personale indipendenza. Documentarista fine e attenta al reale, ha coniato il termine cinècriture (letteralmente “cinescrittura”) per descrivere la sua idea di far cinema consistente nel curare ogni aspetto della produzione. Secondo Varda, un film non va letto solo attraverso la sua sceneggiatura, perché a scriverlo sono anche i luoghi e le persone autentiche che lo popolano. È solo in quest’ottica che forse un film “alto” come Senza tetto né legge (lo trovate su MUBI) può essere oggi riscoperto e apprezzato appieno.
Ed è persino paradossale sentirsi chiamati a guidare lo spettatore in questa visione, perché l’occhio di Varda è in realtà tra i più liberi e puramente svincolati nella storia del cinema: è il resto dei tanti altri cineasti ad averci imposto dei limiti nella lettura filmica. Come dichiarato dalla stessa regista, lei ama rappresentare i “solitari che camminano realmente (nelle campagne) o mentalmente (nella loro angoscia)” e a questa categoria appartiene Mona, una vagabonda che vive senza tetto né legge, appigliandosi solo al suo istinto di sopravvivenza in un mondo che la vorrebbe segretaria d’ufficio. Se un altro regista ci avrebbe raccontato le ragioni di questa scelta giungendo per gradi all’inevitabile tragico epilogo, Varda rema controcorrente svelandoci immediatamente il corpo morto assiderato della ragazza e rivelando appena pochi sprazzi del suo passato.
In cento minuti esatti assistiamo soltanto alle testimonianze parziali in presa diretta degli esseri umani che hanno popolato le ultime ore dell’esistenza di Mona, coadiuvati talvolta dalla voce della stessa regista fuori campo. Ma nonostante quest’intromissione, come Mona anche lo spettatore è libero di errare nei luoghi calpestati dalla ragazza, mai schiavo di una regia intenzionata a renderlo complice di questo o quel personaggio. Dopotutto le stesse testimonianze rivelano maggiormente i sentimenti dei narratori più che della ragazza: attraverso l’ideale di assoluta libertà incarnato dalla vagabonda, gli attori (perlopiù non professionisti) raccontano soprattutto qualcosa di se stessi.
Di Senza tetto né legge si è costretti a dire non sia un film per tutti unicamente perché allo spettatore richiede un personale percorso di decodifica della mera azione mostrata sullo schermo. Ed ogni tentativo di univoca interpretazione risulta dunque non solo fallimentare, ma del tutto inutile. Un’opera di tal fatta non poteva certo sfuggire agli occhi attenti della giuria (tutta al maschile!) della quarantaduesima edizione della Mostra del Cinema di Venezia che la premiò con il massimo riconoscimento. L’appena diciannovenne protagonista Sandrine Bonnaire venne invece insignita del César come miglior attrice protagonista, sbarazzando un parterre composto da Isabelle Adjani, Juliette Binoche, Nicole Garcia e Charlotte Rampling. E allora rivedere oggi Senza tetto né legge diventa l’occasione perfetta per riscoprire un’autrice amata da circoli troppo ristretti e rendersi conto una volta di più che a ben vedere la storia si ripete… anche quella del cinema.
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