VENEZIA – Kornél Mundruczó è, da due decenni, uno dei nomi nuovi del cinema d’autore europeo, una promessa (forse ancora in parte incompiuta) che si è presa il suo tempo per guadagnare una piena ribalta, fino ad arrivare a due lungometraggi, più recenti, che non sono certo passati inosservati neanche nei circuiti per così dire maggiori. Fin dai suoi primi film ha trovato ospitalità nei maggiori festival internazionali, da Locarno a Cannes, ma è con White God – Sinfonia per Hagen (lo trovate in streaming su CHILI) che è arrivata la consacrazione definitiva con la vittoria della sezione Un Certain Regard proprio nella prestigiosa kermesse francese.
Quel film, del 2014, racconta la storia della tredicenne Lili (Zsófia Psotta), adolescente segnata della separazione dei propri genitori che intrecciava un’amicizia molto forte col suo cane Hagen, imbarcandosi in un tortuoso percorso per ritrovarlo nel momento in cui una legge avversa alle razze meticce spingeva il padre a disfarsi dell’animale. Si trattava di un’operazione stimolante ma anche discutibile nella misura in cui enfatizzava fino allo sfinimento il proprio apparato formale, sovreccitato da un costante uso della macchina a mano e dall’assenza di un unico fuoco e punto di vista: gli zoom creavano un costante sfasamento percettivo, calando lo spettatore in una vicenda con protagonisti personaggi randagi e stimolata, a sua volta, da uno sguardo altrettanto randagio, sbalestrato e privo di bussola.
Sebbene molte delle questioni alla base del film, ambientato per le vie di Budapest, rimanessero tutto sommato inespresse, c’era un incidere tragico non indifferente nel lavorare senza troppi complimenti sulla crudeltà dell’uomo contrapposta alla purezza scomposta ma tutto sommato ben più integra e incorruttibile del mondo animale. E il racconto procedeva, parallelamente, sempre in levare, grazie a una colonna sonora marcata e a un’idea di vertigine cinematografica che in questo regista sembra lavorare sempre per contrasto, tanto rispetto al melodramma quanto in rapporto ai discorsi socio-politici, laddove presenti in forma più o meno latente.
In tal senso Kornél Mundruczó rappresenta una sorta di autore ibrido, una voce nuova a tutti gli effetti nonostante faccia cinema non da pochissimo. In essa gli steccati tradizionali tra la nozione canonica e storicizzata di auteur all’europea e le dinamiche da cinema di genere sembrano coesistere senza colpo ferire, un po’ amalgamandosi a forza e un po’ facendo a pugni tra di loro (Cannes da molti anni sembra valorizzare a chiare lettere questo tipo di sguardo, si pensi a film come I miserabili di Ladj Ly, una sorta di blockbuster con droni calato nelle banlieue francesi, e a Bacurau, mondo movie contemporaneo fantascientifico e improbabile sul Brasile post-Bolsonaro).
Tale approccio, anche negli esiti più pacchiani e deteriori che nel cinema di Kornél Mundruczó certo non mancano, è tuttavia un chiaro indizio di vitalità e un vettore di possibili esiti sorprendenti come di rovinose cadute. Si pensi ad esempio al film successivo del cineasta ungherese, uscito in Italia col titolo Una luna chiamata Europa: una conferma della regia convulsa e frenetica di Mundruczó, della sua dimestichezza e disinvoltura con la macchina da presa ma anche di una capacità di lavorare al contempo sul genere e su temi alti, sempre controcorrente rispetto alla norma. In questo caso il protagonista è un giovane immigrato (Zsombor Jéger) che viene ferito dalla polizia di frontiera mentre cerca di oltrepassare illegalmente un confine. La storia però ha svolta fantasy folle perché il ragazzo, incredibilmente, sa addirittura volare.
Anche qui parliamo di randagismo, di personaggi braccati da colpe ataviche della società e, a prescindere se il film piaccia o meno, è difficile trovare una vicenda con premesse analoghe sviluppata con la stessa sfrontatezza e coscienza delle proprie possibilità nel cinema che solitamente gira per i festival. Alla base di tutto ciò si riscontra inoltre una sensibilità melodrammatica che, soprattutto in White God, si proponeva in maniera affilata e non accomodante. Come se davvero non potesse esistere un posto immune ai tormenti della Storia, parafrasando una battuta di Una luna chiamata Europa, e l’esondare del sentimento fosse comunque condannato a subire la spada di Damocle di uno stigma superiore, in qualsiasi sede e da qualunque punto di vista fosse sviluppato.
Si è tornato a parlare di Kornél Mundruczó, poi, con Pieces of a Woman, presentato in Concorso a Venezia 77 e con protagonisti Shia LaBeouf e Vanessa Kirby. Al centro della storia abbiamo una coppia sposata che si trova costretta a fronteggiare un trauma terribile: la morte del loro bambino durante il parto in casa. Alla base della tragedia la negligenza dell’ostetrica (Molly Parker), che avrà conseguente devastanti e caotiche sulla vita dei due genitori. E, a proposito del suo film presentato al Lido, va sottolineato che Martin Scorsese sembra averlo molto apprezzato, tanto da essere salito a bordo del progetto come produttore esecutivo.
Il maestro newyorkese a tal proposito ha dichiarato: “È una fortuna vedere un film capace di coglierti di sorpresa ed è un privilegio aiutarlo a trovare l’ampio pubblico che merita. Per me è stata un’esperienza profonda e commovente. Ne sono stato emotivamente coinvolto fin dalla prima scena e l’esperienza è diventata sempre più forte strada facendo: sono rimasto affascinato dalla regia e dal lavoro di uno splendido cast in cui c’è anche la mia vecchia collega Ellen Burstyn. La sensazione è quella di essere trascinato nel cuore di una crisi familiare, di un conflitto morale e delle sue sfumature, affrontate con cura e compassione, senza mai precipitare e scadere nel giudizio smaccato”.
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