ROMA – Chiunque si avvicini a Mission: Impossible – The Final Reckoning aspettandosi un semplice film d’azione, ha già perso la missione. Perché ovviamente questa non è solo un’altra corsa contro il tempo, ma un rituale collettivo, un’immersione nella mitologia pop del nostro tempo, di cui Tom Cruise non è solo protagonista, ma sacerdote, martire e messia di un culto che si alimenta a colpi di adrenalina e dedizione assoluta. Diretto ancora una volta da Christopher McQuarrie, The Final Reckoning rappresenta l’apice e anche l’epilogo del viaggio iniziato nel 1996 da Brian De Palma. Un viaggio lungo quasi trent’anni fatto di salti nel vuoto, maschere che cadono e una promessa sempre mantenuta al pubblico: non barare mai.

Torna, ovviamente, Tom Cruise nei panni (e soprattutto nel corpo) di Ethan Hunt, l’agente dell’IMF che non ha superpoteri né armature futuristiche à la Iron Man. Solo una convinzione incrollabile: credere nella missione e nella possibilità di spingersi oltre ogni limite, anche (e soprattutto) quelli umani. La minaccia, stavolta, è quanto mai attuale: l’Entità, un’intelligenza artificiale fuori controllo, capace di manipolare, riscrivere, sovvertire. Un nemico invisibile, onnipresente, che non si può colpire né prevedere. E proprio per questo perfetto: la nemesi ideale per un eroe come Ethan, che da sempre combatte l’invisibile, l’impensabile, l’impossibile. Ma se cambia il nemico, resta intatta la filosofia della saga: stunt spettacolari, inseguimenti vertiginosi, coreografie d’azione che mettono al centro la fisicità, la vulnerabilità, la verità.

Cruise, con la solita dedizione quasi maniacale, non si limita a recitare: si espone, si sacrifica, si mette in gioco. Accanto a lui un cast perfetto, da Hayley Atwell a Ving Rhames, da Simon Pegg a Vanessa Kirby, passando per una sorprendente Pom Klementieff. Ogni personaggio trova il suo spazio, ma il baricentro resta sempre lui, Ethan, l’uomo che sceglie la persona al posto della missione, anche quando tutto intorno gli dice il contrario. Il film si apre con un montaggio serrato, quasi un recap accelerato delle missioni passate, utilissimo anche per chi ha saltato qualche titolo di coda. Ma è solo il preludio di un’azione che non concede respiro. Una delle scene più incredibili porta Ethan in un sottomarino affondato, dove rimbalza tra siluri come una pallina da flipper.

Da lì in poi, il film è un crescendo forsennato, che culmina in una scena aerea che è già leggenda: Cruise appeso a un aereo, con le guance che svolazzano come lenzuola al vento. Ma non c’è solo spettacolo. The Final Reckoning è anche un film che parla del nostro tempo, dei pericoli dell’ipertecnologia, del controllo invisibile che esercitiamo e subiamo ogni giorno. E, a modo suo, è anche una riflessione sul tramonto. Cruise introduce una possibile “nuova generazione” di agenti: Hayley Atwell, Pom Klementieff, Tramell Tillman, quasi a suggerire che la saga potrebbe continuare senza di lui. Ma davvero può? Possiamo davvero immaginare Mission: Impossible senza Ethan Hunt? Probabilmente no.

La verità è che Tom Cruise non interpreta più Ethan Hunt: lo incarna. Anzi, è diventato lui la Mission Impossible. Lui che, scena dopo scena, sfida se stesso e le leggi della fisica, spingendosi oltre ogni limite per regalarci non solo spettacolo, ma presenza. L’attore che comunica con il corpo, come Chaplin o Keaton: il corpo come linguaggio, il corpo come mito. Ha costruito un franchise, reinventato un genere, trasformato un agente segreto in un archetipo moderno: Ethan Hunt è diventato un mito contemporaneo, una figura messianica che sacrifica tutto (anche la propria credibilità) per salvare un mondo che non saprà mai dirgli grazie. È diventato un culto, un monumento che ci guarda dall’alto di un aereo in picchiata. E noi, ogni volta, ci lanciamo con lui. Perché, in fondo, crediamo ancora nell’impossibile…
- VIDEO | Qui dietro le quinte di The Final Reckoning:
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