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Un uomo per tutte le stagioni | Joaquin Phoenix e l’arte di fare la differenza

Tra Joker e Audiard, blockbuster e essai, arte e Oscar: perché è lui il top player di Hollywood

Joaquin Phoenix visto dall'artista Alea Pinar Du Pre: pinardupre.com

MILANO – Joker e Johnny Cash, Jacques Audiard e Il gladiatore, Woody Allen e Oliver Stone, l’Europa e Casey Affleck, quella canzone suonata con Scarlett Johansson, i ricordi di un fratello perso e un miracolo chiamato Vizio di forma che, in fondo, basterebbe a giustificare un’intera carriera. Dopo l’Oscar, Joker e i trionfi, in molti (troppi) si sono improvvisamente ricordati di Joaquin Phoenix, quasi come se si fossero accorti solo ora che – con Daniel Day-Lewis ormai in buen retiro – rimane indubbiamente lui il miglior attore vivente in circolazione, uno dei pochi capaci ancora di fare la differenza, uno dei pochi rimasti a segnare la differenza tra grande cinema e mestiere, film e arte, buoni interpreti e fuoriclasse.

La copertina del Magazine del New York Times del 2017.

Diciamoci la verità: in una Hollywood ormai schiacciata sul profitto e con la sindrome d’assedio da Netflix (e Amazon, e Apple, e Disney +, e – mah – Quibi), i margini di coraggio sono sempre più rari, sempre più difficili gli azzardi da milioni di dollari, quasi impossibili i riferimenti alti e un cinema artsy. Poi però arriva Joaquin, che gioca in un campionato a parte, top player d’altri tempi perché, qualunque sia il film, lui vale sempre il prezzo del biglietto. Un paio di anni fa, dopo un periodo difficile, il magazine del New York Times decise di metterlo in copertina con una frase sopra la faccia: «A man for all seasons». Il riferimento al titolo della pièce di Robert Bolt era quanto mai azzeccato, per un semplice motivo: rimandava a tutte le stagioni che aveva vissuto – e a cui era sopravvissuto – dall’anno del debutto nel 1989, a soli quindici anni.

Gli anni felici: Joaquin e il fratello River in cucina nel 1988.

L’era adolescenziale a fianco del fratello River (mai pianto abbastanza), con il debutto in Parenti, amici e tanti guai di Ron Howard e di nome ancora Leaf; la devastante fine dell’innocenza il 31 ottobre 1993 dopo un lutto di cui non solo fu testimone unico al Viper Room, ma di cui dovette anche subire il trauma mediatico; la ripartenza grazie all’amico di famiglia Gus Van Sant e l’exploit di Da morire, nel 1995, seguito da Oliver Stone (ve lo ricordate vagare rabbioso in U-Turn, geloso di Sean Penn?) e da quel piccolo, dimenticato film sugli anni Cinquanta che era  Innocenza infranta, maglietta a righe e sguardo innocente, dove Joaquin Phoenix se ne stava seduto in macchina in mezzo a Liv Tyler (in piena epoca Io ballo da sola), Billy Crudrup e Jennifer Connelly, fascinoso ritorno al passato.

Liv Tyler, Joaquin, Jennifer Connelly, Billy Crudrup e Joanna Going nel 1997 sul set di Innocenza infranta.

Sarebbe stata poi la nomination all’Oscar per Il Gladiatore nel 2001 a far capire a tutti che Joaquin non era solo il fratello di River, non era una meteora, che il talento era tutto suo, anche se ancora era un talento che si muoveva a scatti, rabbioso, pieno di contraddizioni, capace di tutto e del contrario. Non stupisce che poi, a lenire il dolore, sarebbe arrivato il ruolo di Johnny Cash in Walk the line, icona con addosso gli stessi demoni, un uomo che fu in grado di usare la musica per calmare l’orrore e che Phoenix riesce a centrare perfettamente, nonostante l’Oscar vada poi alla persona sbagliata: ovvero Reese Witherspoon per June Carter Cash.

Con Reese Witherspoon e il Golden Globe per Walk the line.

Siamo nel 2006: nomination all’Oscar, un Golden Globe, 200 milioni di dollari di incasso e gli Studios che capiscono che a Hollywood c’è un altro divo su cui puntare. Ed è qui che Joaquin perde la rotta, forse inizia a pensare a River e alla pressione che aveva addosso, forse capisce che con il successo diminuisce la libertà o forse – semplicemente – cerca di sabotare la sua carriera: dopo un doppio colpo con l’amico James Gray (I padroni della notte e, soprattutto, quel capolavoro chiamato Two Lovers), sparisce per quattro anni, gira con Casey Affleck (marito della sorella Rain, ora non più) un mockumentary che nessuno vuole vedere: Io sono qui!, in cui appare da David Letterman in uno sketch destinato a fama eterna su YouTube, Rivedetelo oggi, situazionismo puro in piena era digitale: «Non vuoi più recitare?». «No. «Perché». «Non lo so».

Ma sono falsi movimenti, illusioni. Ritornerà più grande di prima, con Paul Thomas Anderson a regalargli prima The Master (e un’altra maledizione con Philip Seymour Hoffman, che se ne andrà poco dopo), poi Vizio di forma, film colossale, una lezione di recitazione in cui, a tratti, è addirittura chapliniano davanti al bruto Josh Brolin. E poi Woody Allen, Spike Jonze, A Beautiful Day. Adesso, dopo Joker alias Taxi Driver 2, l’Oscar ritirato proprio sotto gli occhi di Keanu Reeves – antico compare di River – è evidente la grandezza di Joaquin e di quanto lui sia capace di cambiare i film in cui recita (il prossimo è C’mon C’mon). Lui non è nel film, lui diventa il film. Lui non appare in un film, lui si mangia il film. Come Pacino, come De Niro. Come negli anni Settanta.

Con Paul Thomas Anderson sul set del neocult Vizio di forma.

Un uomo per tutte le stagioni, si diceva, e allora davanti a Joaquin si comprende come, per certi versi e anche assurdamente, il cinema sia esattamente come il calcio, perché risponde a logiche puramente irrazionali: ci sono partite in cui non si va per il risultato o per tifare, si va per assistere all’eterna ripetizione dei gesti di un fuoriclasse, si va a osservare da vicino la magia, a guardare come si ripete. Non si va al Camp Nou a vedere il Barcellona. Si va al Camp Nou per vedere Messi. Ecco, per lo stesso motivo noi continueremo ad andare al cinema per vedere Joaquin Phoenix.

  • Qui Joaquin Phoenix ricorda River a 60 Minutes:

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