ROMA – «No, non ricordo niente dell’uscita del film. Nulla. Non sono bravo in queste cose». Giuseppe Cederna sorride mentre conclude la frase e, vista la premessa, l’intervista potrebbe già terminare qui. E invece no, perché Mediterraneo di Gabriele Salvatores – uscito in sala nel marzo del 1991 e poi partito verso un Oscar che sarebbe arrivato il 30 marzo del 1992 – rimane ancora oggi molto più di un semplice film. «Vero. Infatti se invece mi chiedi la prima volta che siamo approdati a Kastellorizo, allora sì, allora ricordo tutto…», prosegue Cederna. Facciamo un passo indietro però per raccontare questa nuova storia della nostra serie di Longform. Siamo nell’estate del 1990 quando Salvatores, reduce da due cult come Marrakech Express e Turné, decide di partire per la Grecia per girare il nuovo film. Arruola un manipolo di attori con cui già ha lavorato, tra cui Diego Abatantuono, Gigio Alberti, lo stesso Cederna, Ugo Conti, Antonio Catania e Claudio Bisio. Non c’è Fabrizio Bentivoglio, mentre per la prima volta entra nel gruppo Claudio Bigagli. Così, mentre in Italia iniziano i Mondiali, la troupe parte per Kastellorizo, una sperduta isola dell’Egeo. Un posto che sulla mappa è situato talmente ad Est che non è nemmeno più Grecia, perché sta davanti alle coste della Turchia.
In tasca un pugno di idee, la volontà di girare un grande film e quella frase scritta a penna su un vecchio taccuino: «In tempi come questi la fuga è l’unico mezzo per mantenersi vivi e continuare a sognare». Firmato: Henri Laborit, medico e filosofo francese che, qualche anno prima, aveva già ispirato Alain Resnais e il suo Mon oncle d’Amérique. Nessuno ancora lo sa, ma sarà proprio la sua frase ad aprire il film una volta concluso. «Il viaggio fu parte del film e il film assorbì parte del viaggio», ricorda Cederna. «Arrivammo a Kastellorizo in un pomeriggio di sole, a bordo di un vecchio traghetto. Ricordo il vento caldo sul viso e l’impressione netta che quel nuovo mondo che ci stava accogliendo sembrasse quasi un piccolo teatro rotondo. Ne aveva proprio la forma». Da Milano, che aveva appena battezzato la prima partita di Italia ’90, Argentina – Camerun a San Siro, l’8 giugno, a un angolo sperduto riempito da silenzio e cicale. E poca gente a osservare quello strano e curioso manipolo di italiani venuti a fare il cinema. Megisti, o Kastellorizo, l’isola dal castello costruito dai Cavalieri di San Giovanni, aveva visto troppo per farsi impressionare.
La fuga. Il sogno. La vita. Tre elementi che si mescolarono e poi si allinearono in quell’estate lontana da tutto e da tutti. «Sbarcammo dalla nave divisi, ognuno con le proprie storie in testa e nel cuore», prosegue Cederna. «Non eravamo un gruppo, ma solo tanti individui partiti da Milano per una strana avventura che capivamo fino a un certo punto. Ricordo che la prima volta che lessi la sceneggiatura di Mediterraneo pensai anche che era piuttosto strano girare un film sulla guerra. Su quella guerra». Il cast e la troupe cominciano così a prendere possesso di Kastellorizo, iniziano a conoscerla e ad amarla. Basta poco, molto poco. «Bastarono due giorni. Due giorni. Ci tagliammo i capelli, provammo le divise da soldati, cominciammo ad abbronzarci e improvvisamente ci trasformammo. Per un mese e mezzo la nostra vita cambiò completamente e quello che avevamo vissuto prima sparì». Ecco che Cederna divenne così Antonio Farina, animo gentile che in quel giugno 1941 poco c’entrava con tutti gli altri commilitoni, un uomo solitario e mite che l’isola avrebbe cambiato per sempre.
Era la storia delle storie. Era Ulisse. Era Itaca. Erano le parole di Kafavis. «Devi augurarti che la strada sia lunga, che i mattini d’estate siano tanti». In quel momento, Cederna e tutti gli altri cominciarono a capire che Mediterraneo non era solo un film, che c’era qualcos’altro dietro le riprese giornaliere. «Ricordo il mistero e la fascinazione crescenti durante la lavorazione del film», riflette l’attore, «la percezione che non fosse solo una commedia, perché parlava di luoghi reali, eventi storici accaduti, di un periodo lontano con cui quel gruppo di italiani aveva dovuto fare i conti». E allora ecco che i fratelli Munaron, il disertore Noventa, il tenente Lorusso, perfino l’asina Silvana, divennero frammenti di un mosaico più grande, più complesso, che racconta e sottende molto altro. La vita, anche. «E il piccolo Farina cominciò a prendere forma, a diventare un personaggio ben delineato, timido, introverso ma determinato. Dalle parole della sceneggiatura di Enzo Monteleone prese corpo, giorno dopo giorno, la sua figura e divenni io».
Quello che successe dopo non poteva prevederlo nessuno: l’uscita in sala, il percorso verso Hollywood e poi l’Oscar sconfiggendo Lanterne rosse. Una cosa però fu evidente: Kastellorizo non era più solo la scenografia del film, ma era a tutti gli effetti diventata un personaggio di Mediterraneo, un luogo quasi mistico, l’isola dell’oblio che il turco Aziz aveva capito meglio di tutti. «Se le cose fossero sempre così, che ti portano via le armi e ti lasciano questa roba qua?», riflette a un certo punto Lorusso, ovvero il personaggio interpretato da Abatantuono. «Quando ce ne andammo da Kastellorizo, alla fine delle riprese, eravamo molto tristi, avevamo una malinconia molto profonda nel cuore», ricorda Cederna, «ma nessuno di noi aveva la sensazione di aver girato chissà cosa. Avevamo fatto un film con armonia, sì, un’opera leggera, poetica e concreta al tempo stesso, ma nessuno pensava potesse diventare un film di culto o vincere un Oscar, nessuno». Invece il viaggio continuò.
Il 30 marzo 1992 Gabriele Salvatores va a Hollywood a ritirare l’Oscar e Mediterraneo diventa un fenomeno globale con la colonna sonora (meravigliosa) firmata da Giancarlo Bigazzi e Marco Falagiani che centra perfettamente il suono malinconico dell’isola (ascoltare per credere qui). «Quando ho davvero capito che il film era diventato un cult?», chiede Cederna. «C’è stato un momento molto preciso: il giorno in cui mio padre Antonio Cederna, archeologo e urbanista, mi disse: “Ma lo sai che oggi alla Camera mi hanno chiesto se ero tuo padre?”. Papà vide e rivide Mediterraneo e ne era sempre molto fiero. Anche anni dopo, poco prima di morire, mi disse che lo aveva colpito profondamente». Ma la storia non è ancora finita, perché Kastellorizo dopo le luci dei riflettori e una parte di cineturismo, rimane lì, silente, per anni. Senza che Cederna trovi il coraggio di ritornare.
E qui è ancora Ulisse. Ancora Omero. E ancora Kavafis: «Non affrettare il viaggio; fa che duri a lungo, per anni». Cederna torna in Grecia, molte volte, ma non a Kastellorizo. Ci arriva anche davanti, addirittura di fronte, vede l’isola dalle coste della Turchia, ma se ne va. «Giurai che non ci sarei tornato», riflette. «Giurai perché temevo i fantasmi della gioventù e di un momento irripetibile. Riornare dove si è stati felici è sempre molto pericoloso. Tornai esattamente dopo dieci anni dalle riprese, nel 2000». I timori di Cederna si sciolgono, l’isola e la sua magia sono ancora lì e lui viene accolto come un figliol prodigo. Il destino era quello di ritornare e così poi ci ritornò spesso, a Megisti, anche per celebrare i suoi sessant’anni, nel 2017. «E ora torno almeno ogni due anni, anche se non ci ho mai comperato casa e forse dovevo. Ma va bene così, la sento mia, mi appartiene. Ogni volta che ci torno mi guarda e io sono diverso…».
In questa storia ci sarebbe anche molto altro, ci sarebbe da citare almeno il viaggio fatto in Nepal quando, scendendo dall’Annapurna, un ragazzo australiano e una ragazza spagnola vedono Cederna, lo fissano, analizzano i suoi lineamenti e vi riconoscono il piccolo Farina, anche fuori dalla botte in cui si era nascosto. Anche vent’anni dopo. Anche in un altro continente. Perché nel frattempo Mediterraneo ha smesso di essere un semplice film, ha girato il mondo ed è diventato uno stato mentale. Come Kastellorizo, luogo dell’anima quasi casualmente luogo geografico. «Una volta sull’isola ho perfino incontrato un armatore che era amico di Vanna Barba (l’attrice che nel film interpreta Vassilissa, nda). A un certo punto ha preso il telefono, l’ha chiamata e io ho ritrovato quella voce, uguale. Non ho però mai avuto il coraggio di andare a trovarla».
La storia non è mai finita, come i viaggi, ma a Cederna non chiedete però da quanto tempo non rivede più Mediterraneo. «No, no, non ce la faccio proprio», sorride. «Mi viene tanta malinconia a rivederlo, non ce la faccio. Pensa che una volta per l’emozione di rivederlo a un evento, mi sono venuti i crampi allo stomaco e mi hanno dovuto portare all’ospedale. Ne vedo dei pezzetti, anche con i miei nipoti, ma non riesco a sedermi e gustarmelo». Lontano da Kastellorizo, le strade di quel manipolo di improbabili soldati si sono poi divise, vite molto diverse e scelte altrettanto differenti, ma a trentaquattro di distanza dalle riprese, l’isola dell’oblio rimane lì, indifferente a tutto, commossa da ogni cosa. Punto di partenza e di approdo, nascita e morte di tutto. «Ti ha dato il bel viaggio, senza di lei mai ti saresti messo sulla strada: che cos’altro ti aspetti?».
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