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Tocco francese, ovvero dei molti motivi per cui amiamo Juliette Binoche

Da Krzysztof Kieślowski a Kristen Stewart: il talento eclettico di un’attrice unica

MILANO – Divina Juliette Binoche: spregiudicata, sensuale, oltraggiosa, ma anche raffinata, garbata, elegante. Una carriera unica, grandiosa ed eclettica per un’attrice europea innamorata del teatro e del cinema sin dall’adolescenza, scoperta e lanciata da due dei più importanti cineasti francesi degli ultimi trent’anni: André Techiné e Leos Carax. Con il primo, nell’appassionante Rendez-vous, dove interpreta il ruolo di una giovane attrice di teatro indecisa tra tre uomini di diversa età, tra lutti, fantasmi che perseguitano e perversioni; con il secondo regista nel cult Rosso sangue e nel decadente, passionale, imperfetto Gli amanti del Pont-Neuf, storia d’amore disperata e derelitta, tra sbronze, furti e atti incendiari.

1991: Juliette Binoche ne Gli amanti del Pont-Neuf. Notare la tuta alla Kill Bill.

Opere che la conducono immediatamente nel gotha del cinema d’autore: è lei la Catherine Linton dell’adattamento di Cime tempestose di Emily Bronte del 1992 e, soprattutto, è lei Anna Barton, la ragazza che fa letteralmente impazzire il maturo padre di famiglia Jeremy Irons nel discusso Il danno di Louis Malle tratto dall’omonimo romanzo di Josephine Hart, in cui pronuncia la celebre battuta: «Chi ha subito un danno è pericoloso: sa di poter sopravvivere».

1993: con Kieślowski sul set di Film Blu.

La consacrazione arriva nel 1993 con Tre colori – Film Blu, primo lungometraggio di Krzysztof Kieślowski della trilogia dedicata ai tre colori della bandiera francese, vincitore della Palma d’oro a Cannes: Juliette Binoche vince il premio per la miglior interpretazione femminile grazie a una prova dolente, memorabile, in cui si confronta con il dolore della perdita. Dalla Croisette a Hollywood in pochi anni, ed ecco che arriva anche l’Oscar grazie a Il paziente inglese di Anthony Minghella, mélo trionfatore agli Oscar del 1997, premiato con ben nove statuette. Una, quella per la miglior attrice non protagonista, è sua.

1997, Il paziente inglese. Oscar come miglior attrice non protagonista.

Il cinema americano le apre la porta principale, e negli anni successivi Juliette alternerà la partecipazione a pellicole dirette da rigorosi autori europei (uno su tutti, Michael Haneke, in Storie e Niente da nascondere, recuperateli) ad altre più lievi e accessibili a ogni tipo di audience: dal delizioso Chocolat al fianco di un Johnny Depp in versione zingaresca al sottovalutato L’amore secondo Dan, dove s’innamora di lei un sofferto Steve Carell in una delle rare ma incisive interpretazioni drammatiche. Non è finita, e non finirà: non possiamo evitare di citare Parigi di Cédric Klapisch (a fianco di Romain Duris), e ovviamente Copia conforme di Abbas Kiarostami, per cui nel 2010 vince il secondo premio a Cannes.

2014: con Kristen Stewart in Sils Maria.

Il capolavoro però arriva nel 2014 grazie a Olivier Assayas che in Sils Maria cuce su misura a Juliette Binoche il ruolo della vita, quello in cui specchiarsi senza avere paura dei fantasmi, riflettendo sull’inesorabilità del tempo e sul ribaltamento dei ruoli, dando vita con una sorprendente Kristen Stewart al confronto-scontro femminile più erotico e sofisticato del decennio. Menzionare tutto è impossibile: Patrice Leconte, John Boorman, David Cronenberg, Bruno Dumont fino a Kore-eda tra Ethan Hawke e la Deneuve (Le verità) sono solo alcuni degli autori che hanno avuto il privilegio di dirigere la Binoche, diva che non ha mai temuto di mostrarsi nuda, in tutti i sensi, spogliandosi di vestiti, preconcetti, timidezze per mostrare le ferite dell’anima e la loro brutale bellezza.

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