ROMA – Regno del Bhutan, 2006. La modernizzazione è finalmente arrivata. Il Bhutan diventa l’ultimo paese al mondo a connettersi a Internet e alla televisione, e ora è la volta del cambiamento più grande di tutti: il passaggio dalla monarchia alla democrazia. Per insegnare alla gente a votare, le autorità organizzano una finta elezione, ma gli abitanti del posto non sembrano convinti. In viaggio nelle zone rurali del Bhutan, dove la religione è più popolare della politica, il supervisore elettorale scopre che un monaco sta organizzando una misteriosa cerimonia per il giorno delle elezioni. Parte da qui C’era una volta in Bhutan, un film di Pawo Choyning Dorji, che dopo essere stato insignito alla Festa del Cinema di Roma 2023 del Premio Speciale della Giuria, è pronto ad approdare al cinema dal 30 aprile con Officine UBU.

Un altro piccolo-ma-grande miracolo produttivo del regista bhutanese dopo quel Lunana – Il villaggio alla fine del mondo, candidato agli Oscar 2022 per il Miglior film internazionale. Un toccante racconto di formazione che è storia di scoperta di sé stessi e di ciò che abbiamo intorno, che Dorji realizzò avendo a disposizione pochi ingredienti: ispirazione registica, buoni sentimenti e un budget risicato. La magia del cinema fece il resto. In questo non fa eccezione quel C’era una volta in Bhutan dal titolo un po’ fiabesco un po’ leoniano, che oltre ad alzare l’asticella in termini sintattici e semantici, appare come un’opera decisamente personale per Dorji: «Sono sempre stato così incuriosito dal modo in cui il Bhutan è diventato una nazione moderna. Ero un adolescente che cresceva e vivevo all’estero e potevo vedere quanto fosse diverso il Bhutan».

Da qui la matrice autobiografica del racconto: «Ero come un outsider che entrava e si rendeva conto di cosa si trattasse, ma molti adolescenti in città non sapevano cosa si perdevano. Quella finta elezione nel film è una storia vera. Abbiamo avuto una finta elezione e il Partito Giallo (per preservare l’autorità del Re) ha vinto. Ho trovato così strano che qui la gente ricevesse questo dono della democrazia e non lo volesse. Così ho pensato che fosse una storia davvero unica da raccontare al resto del mondo. Dopo Lunana, sono rimasto bloccato in Bhutan durante la pandemia per prendere parte a un progetto in cui lavoravo con i monaci e i lama e loro seppellivano le armi nelle fondamenta. E ho chiesto loro perché e mi hanno detto in Bhutan che è tutta una questione di simbolismo».

Che poi è la scena madre di C’era una volta in Bhutan, il punto di incontro di tutti gli archi narrativi sguinzagliati in apertura di racconto – e quindi del monaco Tashi (Tandin Wangchuk) e del Lama (Kelsang Cheojay), di Benji (Tandin Sonam) e l’armatore Ron (Harry Einhorn), di Yuphel (Lhendup Selden) e Tshomo (Deki Lhamo) e e dell’ispettrice elettorale (Pema Zengpo Sherpa) – a cui Dorji dona una crescita dosata, intelligente, armonica, mettendo al centro della scena quel fucile che campeggia nella locandina, che dà il titolo originale alla pellicola (The Monk and The Gun nda) e che della narrazione è impareggiabile MacGuffin. Su di esso e sul suo enigmatico utilizzo, Dorji costruisce un’opera ironica e poetica sul senso della vita, il valore dell’uguaglianza, l’importanza della democrazia e sulla pace come unico anestetico alla corruzione d’animo.

Una poesia in movimento avvolta in immagini filmiche spirituali, simboliche e ricercate, C’era una volta in Bhutan, come nel climax quando Dorji decide di salutare lo spettatore regalandogli un’iconografia di pace di pura e rara bellezza: Tashi inquadrato di spalle, con un prato fiorito ai suoi piedi, un arcobaleno come cornice e un campo lungo di sogni e speranze che si apre dinanzi a lui. Il resto è la magia di un’opera seconda che non dovete perdervi per nessuna ragione al mondo.
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