TORINO – Vi ricordate di The Island? Sono trascorsi quasi vent’anni da quel film di Michael Bay così bizzarro eppure riuscito. Una distopia sentimentale che attraverso lo sci-fi più spettacolare e caotico, riusciva a raggiungere il cuore degli spettatori, complice soprattutto l’alchimia tra i due interpreti, Ewan McGregor e Scarlett Johansson. Qualche tempo dopo, dalle ceneri di quel film è nato un altro lungometraggio interessante. Joseph Kosinski, ragionando sulla medesima traccia, osservata però da una prospettiva ancora più radicale, estrema e desolata, firmò Oblivion. Dramma sci-fi incredibilmente malinconico e visivamente sensazionale, che al giovane e impavido Ewan McGregor di The Island, preferisce un Tom Cruise sorprendentemente laconico e addolorato. Nel nuovo mondo proposto da entrambe le distopie, non c’è più spazio per la libertà d’amare, né tantomeno per il ricordo dell’amore vissuto. Piuttosto, per ciò che l’amore sarà, quello rigido, preimpostato e spaventosamente meccanico delle macchine, dei robot e più in generale dell’IA.
Undici anni dopo, Fleur Fortuné su sceneggiatura di Dave Thomas, Nell Garfath-Cox e John Donnelly, ripercorre le tracce di The Island e Oblivion, limitando lo sguardo e gli scenari di entrambi i lungometraggi, agli spazi claustrofobici, futuristici e morbosi di una casa-rifugio nella quale (soprav)vive una giovane coppia, formata da Mia (che brava Elizabeth Olsen) e Aaryan (Himesh Patel). Così come accaduto in molti casi di cinema post apocalittico o distopico recente, a parte dal meraviglioso The Road di John Hillcoat, non ci è dato sapere come e perché il mondo sia finito e la vita si sia trasformata in una lunga serie di tragiche formalità robotizzate, eppure è così. A complicare ulteriormente la situazione, l’impossibilità di dar vita a nuove generazioni attraverso la riproduzione. Le regole del nuovo mondo lo vietano. Non vi è alcuna possibilità di dare alla luce figli propri. L’unico modo per averne (chiaramente in forma d’adozione), è superare una lunga serie di test, in presenza di una sorvegliante costretta a convivere con i potenziali genitori per una lunga, estenuante e claustrofobica settimana. Lei è Virginia (Alicia Vikander), colei che può essere donna e al tempo stesso bambina. Testando, umiliando, manipolando e infine distruggendo. Ne vale davvero la pena? Qualcuno ne è realmente convinto, eppure…
The Assessment dunque riflette sulla possibilità di un nuovo amore, che diviene tale solo se plasmato dal ricordo e controllato dalle macchine. In questo caso da una giovane forma d’intelligenza virtuale incredibilmente spietata, capace di condurre uomini e donne gli uni contro gli altri, frammentando passato e presente ed evidenziandone ferocemente l’inevitabile frangibilità. Chi non è frangibile infatti, è soltanto la macchina, o per citare l’ultimo memorabile capitolo di Mission Impossible, l’entità. Ecco perché il nuovo mondo si regge sui suoi sistemi, non sbagliano mai. Per questo Fleur Fortuné si disinteressa ben presto alle questioni stilistiche ed estetiche proprie del genere sci-fi. Non ha importanza che il film risulti visivamente interessante, se non addirittura magnifico – gli scenari desertici e lunari potrebbero esserlo, eppure non raggiungono mai tale intensità -, poiché tutto ciò che conta, è il meticoloso lavoro di sottrazione imposto tanto agli interpreti principali, quanto alla regia stessa del film. Non c’è spazio per orpelli, svolte narrative, plot twist e grandi momenti di cinema, The Assessment sceglie di concentrarsi meticolosamente su di un minimalismo formale gelido, cupo e deprimente, che soltanto un’intelligenza artificiale sarebbe capace di produrre in merito all’amore. Un sentimento e moto costante, che l’IA mai potrà elaborare o comprendere realmente per ciò che è.
Come detto, un’esperienza cinematografica claustrofobica, che dando inizio ad un seducente gioco a tre – e in definitiva a due -, sembrerebbe osservare Teorema di Pasolini, attraverso un sapiente e sussurrato gioco di sguardi, insediamenti sessuali, nonché sottilissime e spaventose manipolazioni mentali. Per poi perdersi sempre più in un labirinto senza fine di complicazioni scientifiche, virtuali e narrative, tristemente sconclusionate. Ciò che conta dunque non è la dinamica dei corpi e delle menti, piuttosto la forza linguistica dell’intelligenza artificiale, che qui vorrebbe farsi carico dell’immaginario cinematografico, plasmandolo secondo codici astratti di associazioni che gli interpreti intercettano soltanto a metà, intraprendendo percorsi estremamente differenti tra loro, dando vita al caos.
Un po’ Her di Spike Jonze e un po’ The Beast di Bertrand Bonello. The Assessment però non possiede né l’intelligenza narrativa, né tantomeno la maturità stilistica e riflessiva, dunque di scrittura dei titoli citati, rivolgendo loro uno sguardo sognante, desideroso e in definitiva superficiale. Un film che vorrebbe essere, eppure non è. Un vero peccato considerando lo sforzo interpretativo di Elizabeth Olsen, mai così in parte, se non in Wind River di Taylor Sheridan. Nel suo sguardo infatti, sopravvive instancabilmente tutto un rimosso di ricordi malinconici e fortemente dialoganti, che hanno a che fare tanto con l’amore, quanto la morte e l’abbandono. Un film d’autore in assenza d’autore.
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