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Ma perché nessuno cammina a Los Angeles?

Strade, scarpe e macchine: la seconda puntata del diario della giornalista di Hot Corn in California

Dalla casa dove vivo si cammina a Echo Park in venti minuti, basta imboccare il Sunset Boulevard. «A piedi?! Perché?», domanda sbigottito un amico locale. Nessuno cammina a Los Angeles: Nobody walks in L.A. non è solo il titolo della commedia di Jesse Shapiro ma un idioma. Secondo la canzone dei losangelini Missing Persons, intitolata appunto Walking in LA, camminare qui è roba per strangolatori da tangenziale, per squallidi jogger o per chi ha finito la benzina e cerca un distributore. L’assunto generale è che bisogna essere un po’ pazzi, come Michael Douglas nei panni di Bill Foster in Un giorno di ordinaria follia, che si faceva tutta Los Angeles a piedi, dai quartieri Est delle gang ispaniche a West Hollywood fino al pontile di Venice Beach dove l’assurda vicenda trovava il suo tragico epilogo.

Il cavalcavia sopra la Freeway 101. Foto Chiara Meattelli.

Sarà dolce farsi prendere da crisi di nervi come quella di Bill che inizia a dare i numeri in mezzo al traffico della Harbor Freeway, sotto il Sunset Boulevard Bridge. Ma devo essere paziente, lo shopping d’auto richiede tempo. Soprattutto quando la macchina dei sogni è da un concessionario coreano perennemente incazzato – da qui in poi “Sergio” – che non spiccica una parola di inglese eccetto: «Cash». A Sergio non importa vendere o meno: non risponde mai al telefono e si fa attendere a lungo durante le ore d’ufficio perché è sempre in pausa. Il concessionario di Sergio si trova a East LA. Un gruppo di ispanici si avvicina mentre aspetto, uno mi parla della vita di strada: «Si ruba, si vende droga, si uccide». Gelo. «Ma ora c’è meno delinquenza e sai perché? Sono tutti strafatti di eroina». Quando Sergio torna, l’affare deve ancora concludersi perché l’auto che voglio provare è intrappolata da mille altre e lui non ha la minima voglia di tirarle fuori tutte. Mi invita a riprovare il giorno dopo.

Il pulmino giallo davanti al museo The Broad. Foto Chiara Meattelli

Invece l’indomani mi avventuro verso Downtown, a piedi. Che darei per noleggiare un cane, così mi sentirei più in linea con i vicini di casa, ciascuno dotato di quattro zampe motrici. Attraverso la tangenziale, osservo i grattacieli luccicare, i contorni scolpiti da un cielo oltremodo blu. Un pulmino giallo della scuola è parcheggiato fuori dal museo d’arte contemporanea The Broad, di fianco allo splendido edificio della Walt Disney Concert Hall. Le strade sono così ampie che quando le attraversi il semaforo pedonale inizia il conto alla rovescia che sei appena a metà. Il cuore di Downtown è la casa dei senzatetto: si aggirano con un carrello della spesa con i pochi possedimenti. Nell’aria costanti folate di ganja. Vedo caffè eleganti con sofisticati panini, frullati a 9 dollari, un micro ristorante messicano con tacos a un buck, una señorita con un banchetto di mango al peperoncino. Vedo un banco dei pegni e poi un calzolaio. Un calzolaio! Uscire di casa a piedi e portare le scarpe a risuolare: ora sì che mi sento a casa.

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