MILANO – Era il 9 giugno 1989, anche se in Italia arrivò nelle sale solo qualche mese dopo, in autunno, dopo che Peter Weir passò per Venezia e lo portò alla Mostra. In sala L’attimo fuggente sarebbe poi uscito ufficialmente il 29 settembre dello stesso anno, approdato nei cinema in sordina prima di dare vita a un passaparola che lo avrebbe tenuto in programmazione per mesi, facendolo diventare il fenomeno cinematografico dell’anno. Per capire meglio la distanza temporale: quel tipo di passaparola oggi non sarebbe possibile e L’attimo fuggente a sale aperte sarebbe probabilmente stato smontato dopo nemmeno due settimane. Fortunatamente non accadde e quel film finì per influenzare le vite di milioni di persone. Genitori e figli, insegnanti e padri.
John Keating, la setta dei poeti estinti, il fiume Congo, il collegio maschile Welton e la ribellione contro la vuota retorica da accademia: ma rivisto oggi L’attimo fuggente che effetto fa? La prima notizia è che non è invecchiato, anzi, è un miracolo di modernità, un film capace di mettere in subbuglio certezze e dogmi, dall’obbedienza alla scolarizzazione forzata. Chi negli anni ha puntato il dito contro i metodi del professor Keating – indicato perfino come un cattivo maestro – non è stato capace di vedere che la sua figura fu solo un mezzo: il capitano non era mai stato lui, non era lui l’approdo, ma era solo l’inizio del viaggio, la scintilla utile a appiccare l’incendio nel cuore di ciascuno degli studenti.
Spesso chi non capisce tende a minimizzare, ma non va dimenticato che tra i molti meriti L’attimo fuggente ebbe anche quello di riportare alla luce decine di autori che il tempo aveva lasciato indietro, soprattutto fuori dai confini americani: in molti seduti in sala scoprimmo allora, per la prima volta – grazie al cinema non grazie alla scuola – Walt Whitman e Robert Frost, la modernità delle loro parole e – meraviglia – che il loro disagio davanti alla vita non era poi tanto distante dal nostro: «Non leggiamo e scriviamo poesie perché è carino: noi leggiamo e scriviamo poesie perché siamo membri della razza umana; e la razza umana è piena di passione. Poesia, bellezza, romanticismo, amore: sono queste le cose che ci tengono in vita».
E allora eravamo noi Neil, Todd e Knox, noi a strappare le pagine, a superare la vergogna e la timidezza, sempre noi a scoprire la vita per la prima volta, a calciare quei palloni tra rabbia e parole, a fumare e respirare nella notte riuscendo (finalmente) a intravedere la nostra identità. Oggi, nemmeno a dirlo, resta solo una grande, inconsolabile, ferita: la nostalgia verso John Keating, acuita da un dolore mai guarito. Perché? Perché Robin Williams per noi è sempre stato irrimediabilmente anche John Keating. La sua risata ribelle, la sua anarchia spontanea, non erano forse le stesse? Quell’entusiasmo folle nel fare e organizzare le cose sempre come se fossero le ultime, come se non ci fosse tempo?
Un consiglio: anche se lo ricordate bene, anche se pensate di conoscerlo, andate a cercare e rivedere L’attimo fuggente, andate a riscoprirlo e riascoltarlo in questi tempi frettolosi, in questi tempi ossessionati dai social in cui tutti seguono tutto, in cui tutti devono dimostrare qualcosa e nessuno sembra più ascoltare e ascoltarsi. La lezione di quel film è ancora lì, intatta, viva, presente, moderna. Chiede solo di essere ascoltata. Ancora una volta: «Due strade trovai nel bosco ed io scelsi quella meno battuta. Per questo sono diverso…».
- Il tema scritto da Maurice Jarre per L’attimo fuggente:
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