ROMA – «È stata la mano di Dio a salvarti, è stato lui!», urla rabbioso un incredibile Renato Carpentieri guardando negli occhi Filippo Scotti (bravissimo, e non era facile) che, cuffie al collo e sguardo traslucido, interpreta Fabietto Schisa. E ancora: «Ma lo sai come fanno i motoscafi offshore quando vanno a 200 all’ora? Tuf, tuf, tuf», dice il ragazzo perduto Biagio Manna, guardando le stelle che dettano la via ai marinai che tornano verso il Golfo di Napoli. Ne citiamo un’altra, l’ultima, quella che a metà del film cambia la rotta della storia, facendoci bagnare gli occhi: «Marì, non fa’ scherzi…», avrebbe sussurrato Toni Servillo nei panni di papà Saverio, rimasto accanto a mamma Maria, con il volto di Teresa Saponangelo (meravigliosa e non verrà detto abbastanza) un attimo prima che la vita di Fabietto diventi quella di Fabio. Al suo nono film e a vent’anni esatti da L’uomo in più, Paolo Sorrentino con È Stata la Mano di Dio decide che è il momento di fare i conti con il passato, di chiudere il cerchio, di dedicare la sua storia a chi, la storia, l’ha scritta.
Allora, è difficile aggiungere parole a È Stata la Mano di Dio, in sala il 25 novembre e su Netflix il 15 dicembre; è difficile perché sarebbero solo ornamento e orpello, compiacimento e scontata analisi concettuale di quello che è – più di ogni altra cosa – un film folgorante. Paolo divenuto Fabietto, per la prima volta nella sua carriera, realizza un’opera semplice, essenziale, che arriva diretta al cuore, dribbla trucchi e retorica, nemmeno fosse Maradona contro la difesa dell’Inghilterra. Un film che sconquassa testa e cuore, mentre lo stomaco diventa piccolo. Qui, il più grande regista italiano vivente (per chi sta scrivendo, almeno) fa a meno di (quasi) tutto, lasciando spazio solo ed esclusivamente alle emozioni, ad un flusso lungo com’è lunga Spacca Napoli, tracciando un solco fatto di mille sfumature tutte diverse, tutte pregne di bellezza, di disperazione, di consapevolezza umana ancora prima che artistica.
Tutto, però, è declinato in un racconto mutabile, che cambia e si arrabbia, diverte e fa piangere, tra il sacro e il profano, mischiando i santi alla carne. Nel bel mezzo di un’estate che ha cambiato il corso di una città e delle stupefacenti anime che la abitano, in attesa di un Salvatore che avrebbe acceso un sogno impossibile da spegnere. Perché poi, la straziante commedia di Sorrentino, parla di lui ma – per estro e per generosità – parla di noi, del nostro coraggio e della nostra vigliaccheria, del dolore che – come dice la figura potente e simbolica del regista Antonio Capuano – non può e non deve essere un antefatto sufficiente per comunicare qualcosa. Cosa è reale? Cosa è inventato? Ci chiediamo. Chissà, alcune volte c’è la spietata realtà con cui Sorrentino ha dovuto nuovamente fare i conti, alcune volte c’è l’invenzione filmica, con i contorni sfocati di un cinema d’autore che adora (e qui la sua grandezza) essere (in)direttamente popolare.
Nonostante spesso venga detto il contrario, Sorrentino ama il popolo, è da lì che viene e lì che vuole tornare, e per certi versi È Stata La Mano di Dio è dedicato proprio a noi, oltre che a sé, ai suoi demoni e a Maradona, icona spirituale e uomo fattosi miracolo. Perché questa volta non c’è sovrastruttura, intellettualismo, astrattismo che può far storcere il naso a chi non mai amato Sorrentino, cieco di fronte ad una poetica linguistica riservata solo ai rivoluzionari. E dunque il regista compie un’altra rivoluzione che sa di rinascita, composta da immagini e cuore, costruita utilizzando sprazzi di una messa in scena che si sposta dalla sua narrativa classica per (ri)cominciare da un punto lontano, fisso nel tempo e nei ricordi che non si possono e non si vogliono dimenticare. Ricordi e certezze che lo hanno plasmato, che lo hanno spinto a rifugiarsi in quella menzogna che è il cinema. Perché la realtà facesse un po’ meno schifo.
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Qui il trailer de È Stata La Mano di Dio:
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