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Dai Goonies a Stranger Things: il lungo, strano, viaggio di Sean Astin

Doveva diventare un divo, ma non lo fu mai: lo strano arabesco di Mikey Walsh

Per chi negli anni Ottanta c’era, il suo Mikey Walsh era l’amico che tutti avrebbero voluto avere, quello goffo, ma coraggioso, il timido della classe, ma anche il più intelligente, senza bisogno di ostentarlo. Era il 1985, Sean Astin aveva poco meno di quattordici anni e dopo un debutto televisivo a soli dieci anni in Please Don’t Hit Me, Mom a fianco della madre – Patty Duke, una star assoluta in America -, finì quasi per caso nel casting di una nuova pellicola prodotta da Steven Spielberg, reduce dal successo di Indiana Jones e il tempio maledetto. Per allestire il gruppo di amici che sarebbe poi divenuto il fulcro de I Goonies, Spielberg richiamò Jonathan Ke Quan – già su Il tempio maledetto – e un pugno di promesse. Tra loro, Corey Feldman, consigliato dall’amico Joe Dante che lo aveva diretto in Gremlins, e lo stesso Astin, alla vera prima esperienza cinematografica, a cui Spielberg affidò il ruolo di Mikey Walsh, secondogenito complessato, con tanto di asma nonché vagamente dislessico: «Che pizza. Non succede mai niente di interessante qui. Ma come si fa a vivere a Goon Docks? La odio questa casa, non vedo l’ora di andarmene via» diceva, mentendo, al fratellone palestrato Brandon (Josh Brolin, sì, quel Josh Brolin).

Jonathan Ke Quan, Sean Astin e Jeff Cohen. Alle loro spalle, Josh Brolin e Corey Feldman.

La storia è nota: la soffitta, Chester Copperpot, Willy l’Orbo e Cindy Lauper, una girandola pop in cui Spielberg – anche co-sceneggiatore con Chris Columbus, che cinque anni dopo avrebbe diretto Mamma, ho perso l’aereo – inserì come sempre anche alcuni elementi biografici, a partire dalla scarsa fiducia negli adulti e la figura assente del padre, un leitmotiv in tutta la sua filmografia. In tutto questo, Astin riusciva a rubare il film nella scena girata in fondo al pozzo, un attimo prima che fosse troppo tardi, con un monologo che avrebbe condotto la truppa fino alla fine della missione: «La prossima volta che vedrai il cielo, sarà quello di un’altra città. La prossima volta che farai un esame, lo farai in un’altra scuola. I nostri genitori hanno sempre fatto quello che è giusto per noi. Ma adesso devono fare quello che è giusto per loro. Perché è il loro momento, lassù. Ma qua sotto è il nostro momento». Qualcuno la potrebbe definire retorica adolescenziale – forse a ragione – sta di fatto che quel minuto di cinema divenne poi uno dei momenti chiave per un’intera generazione cresciuta a pane e VHS.

Sean Astin, nascosto dietro a un ciak, e Corey Feldman sul set de I Goonies.

I Goonies uscì poi in sala il 7 giugno del 1985 negli Stati Uniti, mentre in Italia venne posizionato a Natale dello stesso anno, il 20 dicembre. Non incassò molto, non fu un fenomeno da botteghino e, esaurito il giro in sala, arrivò poi un anno dopo in VHS – questi erano i tempi – dove venne mandato a memoria da una generazione che cercava di ingannare i pomeriggi, fortunatamente molto prima di Snapchat. Sean Astin, che era destinato a diventare una star, in realtà non lo diventò mai, rimase un onesto gregario, a metà strada tra un caratterista e un divo tanto che, dopo qualche apparizione negli anni Ottanta (lo ricordate ne La guerra dei Roses?) ci volle Peter Jackson per riscoprirlo ne Il Signore degli Anelli quindici annni dopo. Fortunatamente non lo hanno dimenticato i fratelli Duffer che nella seconda stagione di Stranger Things gli hanno affidato il ruolo del buono, di «Bob Newby super hero», il padre rassicurante che Will non ha mai avuto, la figura dell’adulto che – proprio al contrario dell’universo di Spielberg degli anni Ottanta – non volta mai le spalle ai bambini, ma li aiuta, li sostiene e rimane lì in piedi, fino alla fine. Anche a costo della vita.

Sean Astin veglia su Noah Schnapp in Stranger Things 2

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