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Carlo S. Hintermann: «Io, tra The Book of Vision, Terrence Malick e i Goonies»

Il regista del film si racconta, tra ispirazioni ed epoche a confronto. Al cinema dall’8 luglio

The Book of Vision
The Book of Vision

VENEZIA – Era già passato per il Lido nel 1999 con il corto Les deux cent mille situations dramatiques. Poi, Carlo S. Hintermann con The Book of Vision (che trovate al cinema dall’8 luglio) ha aperto la scorsa 35ª edizione della Settimana Internazionale della Critica, sezione autonoma e parallela organizzata dal Sindacato Nazionale Critici Cinematografici Italiani nell’ambito di Venezia 77. Un’opera affascinante che intreccia passato e presente, vita e morte grazie a un manoscritto, The Book of Vision, che unisce le esistenze di Eve (Lotte Verbeek), una promettente dottoressa che abbandona la sua carriera per immergersi nello studio della Storia della medicina, e Johan Anmuth (Charles Dance) medico nella Prussia del Settecento, in bilico tra nuove spinte razionaliste e antiche forme di animismo. Hintermann ci ha parlato delle ispirazioni che hanno dato vita al film, del confronto con il produttore esecutivo Terrence Malick e della sua idea di cinema collettivo.

Una scena del film

Il film si muove tra dimensioni temporali e spaziali diverse mostrando però un equilibrio che le lega grazie al manoscritto, simbolo di una storia che non si esaurisce nel proprio tempo. Da dove nasce l’idea del film? Ci sono altri film o registi che ti hanno ispirato o influenzato durante la scrittura della sceneggiatura?

«L’idea nasce molti anni fa dalla lettura di un libro di Barbara Duden Il corpo della donna come luogo pubblico in cui veniva messa in discussione la percezione contemporanea del corpo femminile instaurando un confronto con quella di una serie di donne del Settecento e del loro medico curante. Il quadro che ne emergeva era estremamente affascinante e apriva uno squarcio su un’epoca di transizione tra la medicina antica e quella moderna, tra spinte animistiche e razionalistiche. La necessità di affrontare due epoche a specchio, quella contemporanea e quella del Settecento, è quindi legata a questo confronto. I registi e i film da cui ho tratto ispirazione appartengono a mondi apparentemente opposti, ma in realtà molto più prossimi di quello che si può pensare, da una parte Raul Ruiz e Jacques Rivette – Pascal Bonitzer, abituale sceneggiatore di Rivette è stato anche il mio primo consulente sulla sceneggiatura – dall’altra i film fantasy degli anni Ottanta, Labyrinth, Ritorno al futuro, I goonies. L’aggettivo che tiene insieme questi universi probabilmente è “giocoso”, playful, dove giocare con il cinema significa prenderlo decisamente sul serio».

the book of vision - il set
Sul set del film

Com’è stato lavorare e confrontarsi con Terrence Malick, questa volta alla realizzazione di un tuo film?

«Ho sempre pensato che Terrence Malick, come Godard, Spielberg, Iosseliani, Kitano, fosse l’inventore di una lingua, la propria lingua. Si tratta di un autore seminale, che ritroviamo in molti altri film, pensiamo al rapporto quasi derivativo di Avatar con The New World. Un libro ancora non scritto è però quello del suo ruolo come produttore. Tanti sono i registi che hanno cominciato con lui, Andrew Dominik, Jeff Nichols, AJ Edwards. In tutti questi casi e anche nel mio la spinta di Terry è quella di coadiuvare un cinema originale, in molti casi lontano dal proprio. Il rapporto è quindi entusiasmante, perché è sempre mirato a spingere il film un passo più in là, a mettere a fuoco la propria visione, in questo il coraggio che ha come autore è lo stesso che ha come produttore, d’altronde a sua volta ha avuto come produttore esecutivo de La rabbia giovane Arthur Penn, che mi sembra un inprinting non da poco».

Il Lago di Levico in Trentino, una delle location di The Boof of Vision
Il Lago di Levico in Trentino, una delle location di The Boof of Vision

The Book of Vison è una visione che colpisce anche per la meraviglia delle immagini, dalla dettagliata ricostruzione di scenografie e costumi alle suggestioni di un mondo della natura fantastico e vivo. Come hai lavorato con Mariano Tufano, Joerg Widmer e David Crank alla creazione dei due mondi che compongono il film?

«Io credo nel cinema come lavoro collettivo. Si dà vita a un universo insieme ed ogni elemento creato da un reparto valorizza il lavoro dell’altro. Volevo lavorare con i professionisti che amo ed ero piuttosto sicuro che si sarebbe creata un’alchimia. L’elemento fondamentale era unire le due dimensioni lavorando su dettagli che si richiamassero in un flusso continuo, sull’eloquenza dei set, dei costumi e dell’impostazione fotografica. Il lavoro fatto da Mariano, David, Joerg e Lorenzo Ceccotti, il Conceptual Visual Designer, è andato oltre ogni mia migliore aspettativa. Per me, e credo questo sia l’insegnamento di Otar Iosseliani, o si ride quando ci si incontra alla mattina sul set e quando ci si saluta alla fine di una giornata di lavoro, o non si sta facendo cinema. Posso dire che abbiamo riso, molto».

the book of vision
Una scena di The Book of Vision

Le due anime del film trovano un punto d’incontro nei personaggi. Com’è stato guidare gli attori in un viaggio tra epoche diverse alla ricerca di una sintesi tra questi due mondi?

«Ho cercato di calare gli attori il più possibile nelle due dimensioni. Per quanto riguarda il Settecento ho scelto location che portassero l’allure del tempo in modo quasi incontaminato, con mobilio originale dell’epoca. La creazioni di costumi molto dettagliati che quasi obbligassero gli attori a un portamento austero ha dato un grandissimo contributo. Mi interessava che la posizione occupata dai personaggi nello spazio fosse già il loro modo di stare al mondo. Per la dimensione contemporanea invece ho scelto di avere alcuni oggetti iconici che mi proiettassero verso il futuro: i robot chirurgici forniti da AB Medica, azienda visionaria che ha brevettato macchinari all’avanguardia, e i robot utilizzati per la scansione di libri antichi che usano tecnologie innovative per l’indicizzazione di scritti d’epoca. In questo modo i protagonisti avevano già un contesto solido con cui relazionarsi, di nuovo penso che si tratti di collaborare con tutti i reparti. Nel caso degli attori c’è poi una qualità misteriosa, una sorta di evocazione, di rito che si consuma davanti alla macchina da presa, questo tempo “eccezionale” va preservato creando un vero e proprio ecosistema che lo supporti».

 

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Qui potete vedere una clip di The Book of Vision:

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