ROMA – L’eccitazione nasce dal controllo? Qualcuno direbbe di sì, qualcun altro invece no. Romy certamente (Nicole Kidman giganteggia – non a caso meritevole di Coppa Volpi femminile a Venezia 81 – mettendosi a nudo in una prova che richiama sottilmente Eyes Wide Shut, tra maschere imposte dalla società ed altre dal rimosso del passato, che torna, eccome se torna) appartiene al primo schieramento. Com’è possibile però che una donna forte, impavida e di successo come lei, dunque fortemente abituata alla gestione del controllo, ne resti comunque sopraffatta, eccitandosi dapprima inconsciamente e poi sempre più consapevolmente, nell’essersi perduta? Poiché il controllo, quello vero, o almeno questo sembra suggerirci Halina Reijn, regista e sceneggiatrice di Babygirl, non appartiene alla sfera delle situazioni che già conosciamo e che siamo capaci di gestire, piuttosto all’imprevisto, all’estraneo e al destabilizzante. Ha un nome, Samuel (Harris Dickinson) e un corpo, che apparendo dal nulla, si fa conoscere da noi e così da Romy, attraverso il controllo di una situazione altrimenti violenta, cupa e potenzialmente tragica: L’aggressione di un cane e la sopraffazione del più debole, da parte del più forte.

Il secondo lungometraggio da regista di Halina Reijn, dopo il curioso e a suo modo riuscito Bodies Bodies Bodies – critica feroce alla realtà social ed effimera della generazione Z, passando per i linguaggi dell’horror e del cinema demenziale – è sulle dinamiche perverse e diaboliche dei ruoli nella società e nella sfera privata che riflette questa volta. Dalla donna forte e di successo, incapace di godersi appieno la famiglia unita e il matrimonio appena soddisfacente, al giovane sconosciuto apparso dal nulla. Colui che sembra muoversi nella società e più in generale negli spazi dell’emotività e sessualità, con inspiegabile freddezza, illudendoci che il caos non esiste e il controllo è la chiave unica di ogni accadimento. Dovremmo pensare infatti che Romy mai potrebbe cadere così rapidamente, nelle convinzioni manipolatorie di quest’ultimo. Eppure è proprio chi ha tutto da perdere, che è destinato a crollare, restando prigioniero della tela, incapace, o addirittura incuriosito dalla situazione fino a lì estranea: L’impossibilità del controllo, altrimenti detta, totale sopraffazione.

Da un bicchiere di latte – Romy non è costretta a berlo, le viene addirittura suggerito di non farlo. Eppure qualcosa la spinge a non fermarsi, portando a compimento il gesto, per poi ripulirsi la bocca con la mano, sbadatamente. Lì c’è lo sguardo e il lasciapassare. La dominazione ha inizio -, giungendo poi alla violazione degli spazi della casa, fino allo scontro e all’ultimo giro di giostra, di un gioco destinato a concludersi fin dal primissimo momento, o nella violenza, o nel ribaltamento dei ruoli. L’idea di cinema cui Babygirl appartiene, che Halina Reijn scrive e dirige con abilità e doverosa ironia, è la medesima di moltissimo cinema passato, potremmo citare Pier Paolo Pasolini, Lina Wertmüller, Liliana Cavani e Bernardo Bertolucci, eppure non ne coglieremmo ancora lo spirito più profondo di sessualità ed eccitazione proibita, ma nemmeno di divertimento. Quello di Halina Reijn ed è chiaro fin da subito, non è un cinema di denuncia sociale, o almeno, non principalmente.

Poiché Babygirl non intende mai indossare tali vesti, mettendosi sfrontatamente a nudo, rispetto alla sua natura di divertissement, capace senz’altro di ragionare su ciò che oggi è possibile considerare eccitante, senza più provare vergogna, senza più nascondersi in quelle ombre e nebbie, destinate poi a diradarsi, svelando l’inganno e la menzogna. Proprio come accade tra Romy e il marito regista Jacob (Antonio Banderas è quanto di più spassoso possiate immaginare) e il sesso privo di dialogo e confessione reciproca, cui segue la fuga e la masturbazione più feroce, proibita e soddisfacente. Ecco dunque lo scontro tra ciò che è estrema – e talvolta monotona – convenzionalità (Jacob, non casualmente è la parola di sicurezza tra Romy e Samuel) e ciò che invece è novità, ascolto dei desideri più reconditi, celati e carnali.

Babygirl, coraggiosa e provocatoria formula cinematografica ad oggi tragicamente solitaria, anomala e per questo derisa dai più, o comunque da molti – basti rivolgere uno sguardo all’immediata ricezione critica festivaliera -, è molto più di quello che può sembrare. Halina Reijn è un’autrice coraggiosa, che ben conosce la distinzione tra gioco di seduzione fortemente seducente e disinibito e materiale narrativo gratuitamente pornografico. Lasciatevi andare a Babygirl, perdete di vista per qualche ora le redini cui certamente vi siete aggrappati e godete dell’eccitazione proibita, buffa e da questo momento libera più che mai, che Nicole Kidman e Harris Dickinson plasmano e ribaltano a favore dei nostri sguardi e istinti, inevitabilmente affamati, incuriositi e celati da ciò che in sala ancora indossiamo e che forse al termine della visione, abbandoneremo. Lo suggerisce Dickinson, lo grida Reijn: Kidman viene per tutti noi, fate lo stesso per Babygirl. Nessuno più vi giudicherà, è il cinema a dirlo!
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