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Amy Winehouse, Mark Ronson e la genesi di Rehab passeggiando per New York

Nell’anniversario della sua morte celebriamo la ragazza di Camden ricordando la genesi della sua hit

amy winehouse

ROMA – 23 luglio 2011. Un sabato qualunque con il caldo afoso che entra dalle finestre e la noia a farti compagnia. Fino a quando non arriva una di quelle notizie che ti lascia impietrito e incredulo. Amy Winehouse, 27 anni, è morta nella sua casa al numero 30 di Camden Square. Solo un mese prima, alla tappa d’esordio del suo tour europeo, era salita sul palco di Belgrado ubriaca e confusa. Smarrita davanti quel pubblico che la fischiava e lasciata sola a barcollare davanti agli obiettivi di centinaia di smartphone che immortalano impietosi la sua disfatta. Tour cancellato e ritorno a Londra. Quello che accade dopo diventa tristemente noto, tra i rimandi al Club dei 27 e centinai di fan in lacrime davanti la sua casa per settimane. Amy Winehouse diventa un’altra leggenda della musica dal destino beffardo. Una morte triste, insensata, precoce che brucia ancor di più se si pensa che dietro le decine e decine di copertine di tabloid pronti a immortalarne cadute e passi falsi c’era un talento sfacciatamente autentico.

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Le bastava aprire la bocca, con quel suo fare tra lo strafottente e l’annoiato, per farci credere che cantare in quel modo fosse la cosa più semplice del mondo. Ballerine bianche ai piedi, jeans strettissimi, una polo e una riga marcata di eyeliner, Amy Winehouse non aveva bisogno d’altro per catturare la nostra attenzione. Magnetica, sfrontata, chiassosa eppure così fragile, spaventata, insicura. «Quando sono nervosa? Cotono di più i miei capelli!» afferma scherzosamente nel backstage di un suo concerto. Paragonata ad artiste come Billie Holiday e Sara Vaughan, Amy Winehouse ha avuto il merito di aver riportato la musica jazz e soul in testa alle classifiche di tutto il mondo. In soli dieci anni ha rivoluzionato l’industria discografica inglese aprendo la strada a molte colleghe, da Duffy ad Adele, che senza dei lei avrebbero faticato a trovare un posto in un mercato musicale costellato da cantanti pop troppo simili tra di loro.

Ispirata dai gruppi femminili americani degli anni Cinquanta e Sessanta che ascoltava da ragazzina come The Ronettes, The Shirelles o The Shangri-Las, dal wall of sound di Phil Spector e dalla musica reggae, con soli due album, Frank e Back to Black, diventa un’artista di riferimento a cui anche il cinema e la serialità attingono a piene mani. Ne sono un esempio le due versioni di Back to Black riarrangiate rispettivamente per Il Grande Gatsby di Baz Luhrmann, con il duetto tra Beyoncé e Andre 3000, e per Westworld nella versione strumentale di Ramin Djawadi (su CHILI trovate una selezione di film che usano le sue canzoni). Se dovessimo citare un solo nome che ha contribuito a fare della Winehouse l’artista di riferimento dei primi anni Duemila? Sarebbe impossibile non citare Mark Ronson, produttore Re Mida che con il quale riesce a ricreare in studio quelle sonorità che ha imparato ad amare ascoltando vinili di musica soul comprati nei mercatini di Camden.

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Proprio Back to Black segna quel passaggio non solo sonoro ma anche estetico che la farà somigliare sempre di più a una di quelle cantanti delle copertine dei dischi consumati a forza di ascoltare. Un misto tra Ronnie Spector ed una pin-up. Asso del biliardo e fanatica conoscitrice di musica jazz grazie al padre Mitch, non era difficile incrociare Amy all’Hawley Arms, pub di Camden in cui ancora ci sono le sue foto dietro il bancone, testimonianza di un passato non troppo lontano. Autrice dei suoi testi, perennemente insoddisfatta, Amy Winehouse era sia la ragazza che non riusciva a restare in piedi sul palco nelle serate “sbagliate” sia l’artista che in cinque minuti scriveva Love is a Losing Game sul tavolino di casa tra i resti delle patatine mangiate la sera prima. «Una canzone segna un’occasione nella mia vita ed è così che vivo la mia vita, attraverso le canzoni».

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Ma tra Back to Black e Tears Dry On Their Own c’è un brano che più di tutti è diventato immediatamente iconico e ha segnato il suo destino musicale. Merito anche di quel ritornello – “No, no, no” – impossibile da togliersi dalla testa. Una canzone nata a New York, più precisamente a Soho, dove Amy e Mark stavano passeggiando dopo essersi incontrati in studio qualche giorno prima grazie alle rispettive case discografiche. Mentre la ragazza di Camden si apriva e raccontava del suo passato recente fatto di troppe bottiglie aperte e di manager e famigliari preoccupati per la sua salute, ecco che Amy, ricordando di quando volevano mandarla in rehab, pronuncia quel “no, no, no” accompagnata da un gesto della sua mano che accende una lampadina nella testa del produttore.

«Odio scrivere canzoni ispirate da un’espediente», le dice Ronson, come da lui stesso ricordato al The Howard Stern Show nel 2019, «ma c’è qualcosa di orecchiabile in quello che hai appena detto. Ti andrebbe di tornare in studio e magari provare a trasformalo in una canzone?». Trenta minuti dopo il testo e la musica di Rehab erano già pronti. Inizialmente la melodia era quella di un blues lento – «Ogni cattiva situazione è una canzone blues che aspetta di essere scritta», affermava Amy – ma la produzione di Ronson la trasformò velocizzandone il ritmo e trasformandola in quella hit da tre Grammy e un Ivor Novello Award.

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Riferimenti a due dei suoi miti, Donny Hathaway e Ray Charles, elementi autobiografici – come in tutte le sue canzoni – e un’onestà rara. Rehab è una summa del mondo musicale di Amy Winehouse costellato di citazioni e vita vera. Non c’è brano che non attinga alle sue esperienze personali – su tutte la sua relazione tormentata con Black Fielder-Civil – e non c’è brano che non sia scritto con uno stile profondamente personale, originale, innovativo. Non è un caso se addirittura Love is a Losing Game sia stata analizzata a Cambridge in paragone ai poemi di Sir Walter Raleigh. Perché Amy Winehouse è stata davvero la più grande cantautrice degli anni Duemila.

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In questi dieci anni sono usciti libri, interviste, documentari – su tutti il bellissimo Amy di Asif Kapadia – che con esiti diversi hanno provato a raccontare “la ragazza con i capelli strani” e molti altri ne usciranno proprio in questi giorni – come Reclaming Amy per la BBC – ma la sua vera eredità non si può raccontare. La sua eredità è racchiusa in una manciata di canzoni. È lì che dobbiamo andare a cercare la vera Amy, quella che si raccontava senza filtri mettendo su un foglio di carta i suoi sentimenti, cristallizandoli in una canzone con intensità, ironia e onestà. «La musica è l’unica cosa che ti dà ancora e ancora senza chiedere nulla in cambio».

  • HOT VIDEO: Amy Winehouse e il soul moderno di Back to Black

Qui potete vedere Amy Winehouse in una versione acustica di Rehab:

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